Sotto la protezione di Sant’Agata

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Il ricordo della Guerra cominciava un poco a sbiadire e “ricostruire” divenne la parola più ricorrente nelle conversazioni degli italiani. Il Bel Paese riemergeva dall’oscurità e dall’amarezza pronto a vivere una nuova stagione ricca di sole e di grandi speranze.

È nei primi anni Cinquanta che lo scrittore e giornalista Guido Piovene percorre l’Italia in su e in giù per narrarne la voglia di riscatto e le profonde trasformazioni in atto. In quel suo peregrinare dalle Alpi all’Etna, che lo porterà a descrivere con raro acume ogni luogo visitato, giunse anche qui, in terra orobica.

Lo scrittore vicentino visita una Bergamo in cui la suddivisione tra Città Alta e Città Bassa è già ben definita: “La vita moderna, grandi negozi, uffici, poteri pubblici, è discesa a Bergamo bassa; quella alta ospita negozi più piccoli, botteghe d’artigianato, popolino, turisti, famiglie aristocratiche nei loro palazzi, e il vescovo sulla cima”.

L’architetto Luigi Angelini, responsabile del recupero e della conservazione delle vecchie case di Città Alta, racconta a Piovene come il corso della nuova edilizia “nasconda le sue minacce all’estetica”. L’urbanista bergamasco chiarisce che «Molte di queste vecchie case, dichiarate oggi inabitabili, devono essere demolite. Bisogna risanare la città alta con pazienza, astenendosi dai grossolani piani d’insieme. Un lavoro di cesello, casa per casa, svuotando e rifacendo all’interno quelle che possono salvarsi, sostituendo le abbattute non già con nuove case, ma con piazzette, portando gli sfollati in Bergamo bassa».

È proprio in questo clima di grande mutamento che, nel 1956, Mimmo e Lina intrapresero la loro avventura umana e lavorativa in Città Alta. Da Milano si trasferirono in un borgo antico assai popolato, umiliato dalla Guerra e dalla miseria, dove le condizioni igieniche erano ridotte ai minimi termini e solo i palazzi nobiliari potevano concedersi il lusso di avere il bagno in casa.

Con una fiducia sconfinata nel domani, papà e mamma aprirono la loro pizzeria sulla Corsarola, certi che il futuro, il loro e quello di tutti gli italiani, sarebbe stato dipinto di rosa.

Nel frattempo, però, durante la settimana, al locale non si vedeva anima viva, specialmente nelle sere d’inverno. Mimmo e Lina aspettavano con pazienza il sabato e la domenica per dedicarsi anima e corpo a quanti salivano dalla città bassa, o si avventuravano dalla provincia, per scoprire la pizza e concedersi un momento di gioia a tavola.

A quell’epoca avevano già due figlie e vivevano in un piccolo appartamento di via Salvecchio, a pochi passi dal ristorante. Muri spessi e di pietra antica ma, da fine ottobre ai primi di marzo, la notte faceva freddo, si gelava. In quella casa non vi era l’impianto di riscaldamento, un agio che i miei genitori non potevano permettersi.

“Una ne fa, cento ne pensa”. La mente di papà non si fermava mai. Non vi erano difficoltà in grado di demoralizzarlo, era sempre alla ricerca di idee brillanti e soluzioni imprevedibili per affrontarle e risolverle. Così escogitò un trucco: una volta terminato il lavoro serale e chiuso a doppia mandata l’uscio sotto l’insegna, sistemava materassi e coperte sotto la bocca del forno, che rimaneva caldo tutta la notte.

In pochi minuti trasformava quello spazio in una camera da letto, con il riscaldamento. Ed era dolce, per tutti e quattro, addormentarsi al calduccio, cullati dai profumi di margherite e quattro stagioni, calzoni e marinare, che restavano nell’aria fino al mattino.

Grazie a quello stratagemma il sonno era sereno e ristoratore. Poi, con le prime luci dell’alba, sempre benedicendo il calore residuo del forno, papà cuoceva il pane. Utilizzava la pasta della pizza rimasta dalla sera prima, perché nulla andava sprecato.

Quel pane, la cui fragranza era davvero irresistibile, con un velo di burro e una spolverata di zucchero era la nostra colazione, ma anche la nostra merenda con un filo d’olio e un pizzico di sale.

In poco tempo si diffuse la voce tra gli abitanti di Città Alta – quel pane era davvero buono! – e iniziarono a chiederlo a papà. Avrebbe potuto fare il fornaio, ne aveva la vocazione. Amava fare il pane, per questo continuò a impastare e infornare fino a tarda età, quando per reggersi doveva aiutarsi con il bastone.

Per dirla come Giorgio Gaber – anche se lui si riferiva al suo essere italiano – “per fortuna o purtroppo” non ho vissuto quelle notti riscaldate dalla brace imperturbabile che sostava in fondo al forno a legna. Devo per necessità affidarmi ai ricordi di chi c’era. Però so che, grazie alla fede nel domani e alla vigile protezione di Sant’Agata, i sogni di quella famiglia, confidati l’un l’altro al buio e con un filo di voce, in pochi anni divennero realtà.