Luci a San Siro
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Le idi di marzo del 44 a.C.: l’assassinio di Giulio Cesare. O il 14 luglio 1789, il giorno in cui, con la presa della Bastiglia, iniziò la Rivoluzione Francese.
Ci sono date scolpite nella mente, apprese quando sei un bambino. Alcune le impari a scuola e non le scordi più. Altre sono legate a momenti iniziatici e irripetibili.
Il mio sogno, ricorrente ogni domenica pomeriggio e latente per tutta la settimana, era quello di andare a San Siro per vedere il Milan “dal vivo” e ammirare in carne ed ossa la sua stella più fulgida, Gianni Rivera.
Quel giorno arrivò all’improvviso: era il 3 novembre del 1974. Seduti tutt’altro che compostamente sul sedile posteriore della 131 guidata da papà, io e mio cugino Didi partimmo in direzione San Siro.
Per l’emozione di quel viaggio annunciato solo la sera prima, avevo trascorso la notte in bianco. In macchina, papà ascoltava ad alto volume le canzoni di Domenico Modugno, ma quel pomeriggio non avevo voglia di farmi coinvolgere dalla triste vicenda de “Lu pisce spada”. Ripetevo a memoria la formazione del Milan e “E lu masculu paria ‘mpazzutu” mi confondeva nel rammentare quali fossero i giocatori in panchina.
Quel Milan, che non aveva ancora assorbito il trauma della Fatal Verona, stava vivendo un momento difficile. Il nuovo allenatore – Gustavo Giagnoni, l’uomo col colbacco – aveva un compito ingrato: sostituire una leggenda, Nereo Rocco, il vincente e amatissimo Paron.
In estate erano arrivati Ricky Albertosi dal Cagliari e dal Torino Gianni Bui, la cui figurina, quell’anno, divenne irreperibile, un po’ come la sua presenza in campo.
Fu acquistato anche Egidio Calloni, marchiato subito come lo “sciagurato Egidio” – citando colui che infranse il cuore alla monaca di Monza – da un Gianni Brera particolarmente ispirato e senza cuore. È vero che fece un paio di errori incredibili davanti al portiere avversario, ma nei suoi confronti si scatenò una vera e propria gara di perfidia. La vinse il geniale Beppe Viola quando, a proposito dell’attaccante milanista, in un servizio della Domenica Sportiva commentò: “Occasione per il Milan sventata sotto porta da Calloni”.
Con la fronte appoggiata al finestrino, il mio sguardo vagava inquieto oltre il ciglio della strada. Non mi sembrava vero: stavo per assistere a una partita del Milan nello stadio più bello del mondo, con i campioni le cui figurine incollavo accuratamente sul mio album Panini.
In quell’indimenticabile domenica d’autunno, i miei eroi affrontavano il Lanerossi Vicenza. Non era certo una partita di cartello ma, quando avevo strappato a mio padre la promessa di andare a San Siro, il patto era che non ci dovesse essere traffico nel raggiungere lo stadio.
Ero comunque concentrato sull’evento e, a dir poco, preparatissimo. Solo un “malato” di calcio come me poteva sapere, e ricordare ancora oggi, che l’ala sinistra del Vicenza era Emiliano Macchi, figlio della sorella di Luciano Chiarugi, la nostra punta di diamante in attacco.
Giunti alla barriera, mio padre sentenziò profetico: “Il tempo è umido, c’è una leggera pioggerella, secondo me a Milano c’è la nebbia”. La visuale in autostrada non era delle migliori e io venni assalito dal panico: vai a vedere che sospendono la partita.
Papà mi rassicurò con una frase che non dimenticherò mai: “Non ti preoccupare, si gioca comunque. E poi Rivera è così bravo che lo vedi anche nella nebbia”.
Parcheggiata l’auto nelle vicinanze dello stadio, ci incamminammo subito verso San Siro immersi nella fiumana di tifosi, tra mille sciarpe e bandiere rossonere. Ma nessuna maglia. All’epoca le divise dei calciatori erano cimeli rarissimi, ti serviva per forza uno zio amico di “basletta” Lodetti o, che ne so, di Cudicini o Anquilletti. Le poche magliette in circolazione venivano conservate gelosamente nel doppiofondo di un cassetto e di certo non si mettevano per andare allo stadio.
Erano quelle le domeniche felici degli italiani. I bagarini urlavano offrendo i biglietti a prezzi sempre più bassi, gli ambulanti promettevano inenarrabili gioie del palato tentandoti con succulenti panini imbottiti di salsicce e salamelle. Mi parvero pastori allegri e un po’ sguaiati di un presepe fuori stagione.
Senza alcun preavviso mi ritrovai ai piedi di San Siro e rimasi con la bocca spalancata davanti a quell’immensa cattedrale di cemento. Cominciammo a salire e in pochi minuti fummo in cima. Per la prima volta, vidi i 7.000 metri quadrati del prato verde e immacolato di San Siro.
Fu un’emozione indicibile, un’estasi quasi mistica interrotta dalla mano di mio padre che strinse la mia nella sua per non perdermi nella folla.
Ed eccoli lì i riti tribali che tanto affascinarono Desmond Morris: l’evoluzione dell’uomo da cacciatore a calciatore. Il rullare ossessivo dei tamburi accompagnava un oscuro canto di battaglia dal fascino primordiale. Che poi si trattava di Yellow Submarine dei Beatles in versione milanista.
Finalmente le squadre entrarono in campo e fu un tuffo al cuore. Il Milan indossava la tradizionale divisa a strisce verticali rosse e nere, rigorosamente sottili. Una maglia nuda e cruda – priva di sponsor, scudetto e stella – di eleganza indicibile. Con il numero 10 sulla schiena, i capelli perfettamente in ordine, le Ballon d’Or 1969: Giovanni Rivera detto Gianni.
I biancorossi del Vicenza erano allenati da Hector Puricelli, “uruguagio” atipico e cordiale che vestì la maglia rossonera dal ‘45 al ’49. Ne fu anche allenatore nel ’55, mettendo in bacheca lo scudetto numero cinque grazie alle 27 reti dello svedese Gunnar Nordahl, il “pompiere”.
La partita reiterava imperterrita il medesimo canovaccio. Lanerossi attento a non scoprirsi, Milan in difficoltà nel far breccia in quel muro difensivo.
Avvolto da un drappo impalpabile di bruma, Rivera danzava sul pallone con la grazia di Nijinskij. Passaggi illuminanti e intuizioni celesti. Abbozzando un mezzo sorriso, papà mi sussurrò in un orecchio: “Hai visto? Cosa ti dicevo?”.
Ed ecco il momento tanto atteso. Al settantesimo minuto, “cavallo pazzo” Chiarugi si libera del proprio marcatore e scocca un preciso tiro di sinistro da fuori area che lambisce il palo e si infila nella porta difesa dal baffuto portiere avversario.
Un boato enorme, come l’improvvisa eruzione di un vulcano. L’urlo degli ottantamila di San Siro: e se fosse quello l’urklang, il suono primigenio che, secondo i romantici tedeschi, ha generato il mondo?
Poi, solo felicità. Io, Didi e papà tornammo alla macchina, ebbri di gioia fluttuavamo in quel serpentone umano, indisciplinato e festante. Ed io a voltarmi ogni tre o quattro passi per contemplare ancora una volta il “tempio”. In lontananza vidi accendersi i lampioni del piazzale. Luci a San Siro.