Ottantasette, ti ho visto!

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Sono i film di Sergio Leone ad avermi fatto innamorare del cinema. “Al cuore, Ramòn, al cuore!”. Western che grondavano incanto e bellezza, ma quello che ho amato di più è stato “C’era una volta in America”. Una storia di iniziazione e perdizione che racconta le vicende di quattro ragazzini di un quartiere ebraico di New York. Diventeranno gangster, angeli dalla faccia sporca iscritti senza alternative alla dura scuola della strada.

Nel suo splendore visivo, questo film a tratti misogino e politicamente scorretto indaga i lati più oscuri dell’animo umano. Una pellicola che ritrae con crudeltà la distorsione del sogno americano, ma che è soprattutto un grande racconto sull’amicizia e sulle sue contraddizioni.

“Cosa hai fatto per tutto questo tempo? Sono andato a letto presto.” Io e il Mauri, mio compagno di banco al liceo, avevamo imparato battute e dialoghi a memoria. Le vicissitudini di quei ragazzi mi avevano stregato, forse perché un po’ ricordavano quelle della mia adolescenza.

Potrei dire: “C’era una volta in Città Alta”. Tutti noi che abitavamo all’interno delle Mura eravamo liberi di provare e di sbagliare, con grande naturalezza e semplicità. In ogni nostro pensiero, in ogni nostra azione, fondevamo pietà e cinismo, indulgenza e cattiveria, con un’educazione alla vita ancora priva di una morale ben definita.

Quando arrivava la primavera ci trovavamo per strada senza darci appuntamento, richiamati dal desiderio selvaggio di accumulare esperienza e diventare grandi. E in un attimo era maggio, il mese delle rose e della Madonna. Così, con la scusa di andare a messa, si poteva uscire la sera, anche perché le giornate si preparavamo all’estate e vi era luce fino a tardi.

Dopo i primi giorni vissuti a rinsaldare le amicizie sopite in inverno dal freddo e dai compiti, era il momento delle prove di coraggio. Veri e propri riti iniziatici. Uno dei più ardui era scavalcare l’inferriata arrugginita di via Fara saltando il muretto di recinzione del parco di Sant’Agostino, stando attenti a non cadere nel vuoto. Lo scopo di quella sfida, folle e incosciente, era quello di entrare nella chiesa sconsacrata, che da pochi anni aveva smesso di essere un distretto militare, per scoprirne anfratti nascosti e stanze segrete. Se penso a quel salto e alla testa rotta che potevi ricavarne, ho ancora i brividi.

Tirarsi indietro significava essere escluso dal gruppo, essere bollato come pavido e non partecipare più ad altre prove molto più interessanti e meno rischiose. Come la scoperta dell’altro sesso guidati “dall’incoscienza dentro al basso ventre”, come diceva Guccini, quel desiderio fantastico raccontato dai più grandi.

Arrivò un’oziosa sera di maggio dei miei quattordici anni in cui si sparse una voce che mandò in fermento la nostra accolita di monelli in inquietudine ormonale. In cima alla Rocca sembrava ci fosse una ragazza pronta a darti il primo bacio in cambio di una moneta. Un bacio di quelli veri, ben diverso dallo schiocco sulla guancia che potevi ricevere da tua cugina ai ritrovi di famiglia.

Con la paura che si confondeva alla curiosità e all’eccitazione, io e altri tre miei sodali ci mettemmo in fila dietro ai più grandi, ben protetti dal buio che ci rendeva irriconoscibili.

Incerti fino all’ultimo se scegliere un bacio, un dolce alla panna o una partita di pallone, quella sera optammo per la prima opzione che ci sembrava la più attraente.

Uno dei miei amici indossava una felpa rossa e blu, stile football americano, con un grande numero stampato sulla schiena: l’ottantasette. Un numero che ricorderò per sempre.

Mentre si stava in coda cercando di dominare l’ansia, il nostro bisbigliare sommesso fu zittito dall’urlo di uomo con una forte cadenza bergamasca: “Ottantasette, ti ho visto!”.

Presi dal panico scappammo in un baleno, correndo a rotta di collo giù per la discesa tanto che avremmo strappato applausi perfino a Pietro Mennea.

“L’ottantasette” non ci pensò due volte a togliersi la maglia incriminata e a gettarla tra le siepi, rinunciando per sempre al prezioso regalo di un cugino che era stato a New York. Alla madre raccontò che la felpa si era strappata giocando a pallone sul sagrato: meglio un rimprovero che la vergogna di essere smascherati.

Per il primo bacio dovetti aspettare ancora un po’. Chissà poi se quella ragazza c’era davvero o era solo una burla orchestrata ad arte dai nostri compagni più grandi. Quella sera faticai ad addormentarmi e oggi ricordo con un sorriso, e una punta di imbarazzo, quell’attesa elettrizzante ai piedi della Rocca. Ma forse è stato solo un sogno di una notte di mezza primavera…