Settembre: tempo di passata

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Ogni mese ha in sé qualcosa di speciale che lo rende unico. Francesco Guccini ci racconta come i mesi dell’anno siano tutti indispensabili, tanto da scriverci una bellissima canzone, ma io amo settembre e mi sento più vicino alle “impressioni” della PFM o ad Alberto Fortis.

“Quante gocce di rugiada intorno a me, cerco il sole ma non c’è”. Lo scrisse Mogol per Mussida e i suoi sodali mentre Alberto da Domodossola ci cantava “Ahi settembre mi dirai, quanti amori porterai”.

Mi piace quando l’estate attenua il suo impeto e ci bisbiglia con voce sottile che presto arriverà l’autunno. Quando ero bambino, poi, la scuola cominciava il primo ottobre e i trenta giorni di questo mese incantevole che abbraccia i segni della Vergine e della Bilancia trascorrevano veloci nell’illusione che le lezioni e i compiti non sarebbero arrivati mai.

Settembre è anche il mese in cui il pomodoro si trasforma in conserva. A luglio e ad agosto il sole si è prodigato nel dare il meglio di sé, ora bisogna preparare la salsa che dovrà durare tutto l’inverno, soprattutto se hai un ristorante che sforna decine di pizze al giorno.

Ed ecco che il secondo martedì di settembre, nel giorno di chiusura del ristorante, tutti noi, bambini compresi, eravamo precettati nella “grande festa del pomodoro”.

Per quel giorno, mio padre faceva arrivare un intero camion di pomodori San Marzano, a cui faceva aggiungere un bel po’ di cuori di bue. Con i primi facevamo la salsa mentre i secondi servivano per preparare le grandi insalate che avremmo consumato a pranzo prima della spaghettata di rito.

Il rigoroso cerimoniale prevedeva che venissero portati in cucina tre enormi pentoloni da caserma, così grandi che noi bambini usavamo delle cassette di legno su cui arrampicarci per mescolare la salsa.

Mia madre dirigeva la manovalanza stando attenta che ai più piccoli fossero date mansioni alla loro portata. Mio padre e le mie sorelle, invece, lavavano i pomodori, li tagliavano per poi rovesciarli nei pentoloni. L’olio doveva essere caldo al punto giusto per dorare la cipolla senza friggerla, altrimenti la salsa sarebbe diventata amara e, solo alla fine, si aggiungeva il basilico per donare il suo profumo tutto l’anno.

Papà guidava con piglio autoritario le maestranze recitando ad alta voce il suo mantra preferito: “ingrediente cuoce ingrediente”. Perché la cottura ha i suoi ritmi e, in cucina, anche il tempo diviene un vero e proprio ingrediente.

Quel giorno si ascoltava la radio e le canzoni trasmesse diventavano la colonna sonora dell’evento. Ricordo quella volta in cui le mie sorelle si esibirono in coro martoriando “Ancora tu” di Lucio Battisti, ma ancor di più rivedo mia mamma cantare “Dammi solo un minuto” dei Pooh. Tranne quando stirava, ma quello era più un mormorio rivestito di note, prima di allora non avevo mai sentito la sua voce liberarsi pienamente.

“Dammi solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora”. Fu una sorpresa così grande che rimasi senza parole per un buon dieci minuti e, ancora oggi, quell’immagine di lei mi intenerisce e mi emoziona.

La liturgia prevedeva infine l’imbottigliamento. Per questa delicata operazione, da un birrificio locale mio padre acquistava bottiglie dal vetro scuro e spesso che avrebbero protetto per mesi il risultato della nostra fatica.

La “grande festa del pomodoro” volgeva al suo atto conclusivo e più atteso: una sontuosa spaghettata tale da far impallidire quella resa celebre da Totò in “Miseria e Nobiltà”. Un momento da vivere tutti insieme, seduti a lunghe tavolate allestite con tovaglie di carta, perché il pomodoro macchia e la lavanderia costa.

Quel giorno gli spaghetti al pomodoro li preparava papà seguendo una ricetta tutta sua. Cuoceva i pomodori a bassa temperatura - come diremmo oggi - e li disponeva su un tagliere, li incideva appena per aprirli con le mani così da farne uscire l’acqua e i semi. Poi li poneva per un’ora nel forno a legna spento ma ancora caldo della sera prima. Infine, aggiungeva qualche foglia di basilico e frullava i pomodori ormai cotti. Scolava quindi la pasta, la metteva in padella con il pomodoro e mescolava il tutto con energica sapienza.

Il verde del basilico fresco, il bianco della pasta, il rosso della salsa: quanta Italia in quel semplice piatto.

Forse è un ricordo falsato dalla nostalgia, ma io di spaghetti al pomodoro così buoni non ne ho più mangiati. Oppure è la memoria dei profumi che lego a quei martedì di settembre della mia infanzia a procurarmi in questo momento, mentre scrivo, un’intensa e irreprimibile salivazione.

Papà ci diceva che gli spaghetti al pomodoro rappresentano la prova del nove per ogni cuoco. In quei momenti di gioia compresi come per le cose buone e semplici non basta il minuto tanto implorato dai Pooh. Servono tempo e dedizione, amore per le cose fatte bene e una dose robusta di buonumore.


Cosa resterà di questi anni 80

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Anni come giorni son volati via. Brevi fotogrammi o treni in galleria.

[…]

Cosa resterà di questi anni Ottanta. Afferrati e già scivolati via.

Era il 1989 e Raffaele Riefoli, più conosciuto come Raf, celebrava in rima il tramonto di un decennio unico e irripetibile.

Per chi è nato come me nei favolosi anni Sessanta, gli anni Ottanta coincidono con quell’età ibrida e confusa che si pone tra l’adolescenza e la giovinezza. Giorni che non sono sempre allegri e spensierati, poiché recano con sé i turbamenti e le insicurezze giovanili, ma aperti al domani che incombe e liberi dal cinismo che ci porta in dono l’età adulta.

Con l’avvento degli anni Ottanta, in Italia la parola più abusata divenne cambiamento. Si volevano dimenticare gli anni di piombo e tutti erano convinti che alle porte ci fosse un nuovo miracolo economico, il cui signore e padrone sarebbe stato un edonismo votato alla ricerca di un piacere individuale ostentato e sfacciatamente frivolo.

E se il tema è il godimento, allora il cibo riveste un ruolo dominante. Basta con la tradizione e la nouvelle cuisine, basta con il pensiero illuminato di Gualtiero Marchesi volto a togliere ed eliminare il superfluo. Sulle tavole di ristoranti e trattorie fece irruzione un desiderio di impertinente e gioiosa superficialità.

In cucina, molti interpretarono questo impulso alla trasgressione aggiungendo panna liquida a un’infinità di piatti: penne e tortellini, risotti e filetti, torte rustiche e dessert. E non ci si limitò alla panna, comparvero la polpa di granchio e la vodka a far da base a molte salse, il risotto alle fragole e Champagne, con la rucola in versione prezzemolo, cioè ovunque.

La vetta più alta di questa gastronomia senza precetti, libera e selvaggia, fu raggiunta con i tortellini 3P: panna, piselli, prosciutto cotto. Un piatto che fece insorgere la prestigiosa “Confraternita del Tortellino” di Bologna, secondo la quale la panna mortificava i tortellini sopprimendo, sotto quella coltre bianca e appiccicosa, l’esaltazione del ripieno che può donare solo il brodo.

Il vento inarrestabile di quella irriverente rivoluzione intrisa di vodka e fiumi di panna giunse anche da Mimmo. Sì, anche noi peccammo, e nel nostro menù comparve qualche piatto un po’ naif. D’altronde, è vero che il gusto del cliente lo guida il ristoratore, ma ci sono momenti in cui mode e tendenze sovrastano ogni incrollabile proposito.

Se in cucina compresi subito le ragioni di quella sommossa gastronomica figlia di un preciso momento storico orientato alla futilità, con la musica feci molta più fatica. Sì, perché gli anni Ottanta si distinsero per un vero e proprio sconvolgimento di ritmi e armonie.

Io che stravedevo per De Gregori e mal sopportavo pochi altri cantautori italiani e qualche musicista britannico o chansonnier d’oltralpe, rimasi disorientato. Sbocciarono la “new wave” e il “synth-pop" con i loro refrain ossessivi che, il più delle volte, al primo ascolto mi lasciavano indifferente ma già al secondo mi si incollavano all’emisfero destro del cervello.

Fu così che venni sedotto dalle melodie avvolgenti degli Style Council e dei Tears for Fears. Mi entusiasmai per l’energia scura e impenetrabile dei Depeche Mode, così come imparai ad apprezzare i Duran Duran e, a dosi omeopatiche, persino gli Spandau Ballet. Un elenco che senza alcuna fatica potrei estendere per un’altra mezza pagina.

Ma alla fine cosa è restato degli anni Ottanta? Se continuiamo a disquisire di musica, quegli anni travolgenti mi sono rimasti sulla pelle e nel cuore. A tavola, invece, sono spariti da tempo i gamberetti in salsa rosa e le penne alla vodka, piatti presto rinnegati e messi al bando come orrori gastronomici. Piuttosto, ci rimane in eredità la voglia di godere di un attimo, seppur breve ed effimero, e di non prendersi troppo sul serio, soprattutto quando l’argomento tratta di ricette, fuochi e padelle. Con gli anni Ottanta, però, non finisce certo qui. Potrei parlarvi di quando… No, questa ve lo racconto un’altra volta.


Lo chiameremo Mario

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Il suo nome lo ricordo perfettamente, una manciata di lettere a comporne uno assai comune. Ma in questa storia di colpa ed espiazione intrisa di umanità, il suo vero nome non è importante. Così lo chiameremo Mario.

Le mura livide e scrostate del carcere di Sant’Agata nei secoli si sono fuse a quelle della Casazza, il palazzo medievale che ospita il nostro ristorante, una volta sede del servizio postale della Serenissima. Eravamo vicini di casa e qualche volta papà si recava lì per portare gioia e ristoro alle guardie: una pizza appena sfornata, qualche arancino ancora fumante e - in rare occasioni - i cannoli da lui preparati con l’abilità di un autentico pasticcere siciliano.

Fu in una di quelle visite tanto apprezzate dai secondini che nostro padre conobbe Mario. Seduto compostamente al fianco di una guardia, era in attesa del suo turno per compiere qualche servizio o corvée. Quel detenuto dallo sguardo scuro e ineffabile scambiò poche parole con papà, quanto basta per rivelargli di essere nato in Città Alta e di aver sempre vissuto, fino all’epoca del misfatto, in un angusto appartamento affacciato sul Lavatoio.

Nostro padre decise in un attimo, come al solito: quell’uomo meritava una seconda possibilità. Gli promise che, una volta saldato il suo debito con la giustizia, gli avrebbe dato un lavoro.

Trascorsero pochi mesi e in una gelida mattina di fine novembre, avvolto in un vecchio e consunto cappotto di lana, Mario si presentò al ristorante chiedendo del signor Mimmo. Papà mantenne la promessa: in cucina c’era bisogna di un volenteroso lavapiatti.

Mario se ne stava sempre da solo. Fumava da solo. Mangiava da solo. Più volte lo vidi scegliere con competenza gastronomica qualche boccone dalle padelle dei cuochi così da concedersi una cenetta coi fiocchi da gustarsi in taciturna beatitudine.

Ero un bambino curioso e volevo sapere. Chiedevo spesso a mio padre cosa avesse potuto compiere di così grave un uomo tranquillo e apparentemente innocuo come Mario. Non mi rispose mai se non con un vago: “Nella vita può capitare di compiere degli errori che poi si pagano duramente”.

Arrivò la bella stagione e in una sonnolenta serata di luglio trovai il coraggio di avvicinarlo. Era orario di chiusura e nel ristorante era rimasta solo una coppietta che, occhi negli occhi, esitava nel terminare il dolce affinché non svanisse la magia in cui erano avvolti.

Mario cenava a un tavolo in penombra in fondo alla sala e io mi sedetti accanto a lui. Cominciammo a parlare. La spontanea ingenuità delle mie domande infransero quel muro di silenzio dietro al quale si era riparato sin dal suo arrivo. E da quel giorno diventammo amici.

Mi parlò della vita in carcere, in quanti condividevano la cella, di come trovò il modo di farsi rispettare dagli altri detenuti appena giunto a Sant’Agata, svolgendo le mansioni più umili, come pulire le latrine o lavare le pesanti stoviglie della mensa.

Mi raccontò della luce del mattino che filtrava dalle inferriate alle finestre. E poi dell’ora d’aria, in cui misurava la sua ombra proiettata sul muro, vedendola allungarsi e accorciarsi secondo i mesi e le stagioni. Non gli chiesi mai perché fosse finito in prigione, mi aveva già risposto papà e mi bastava.

Osservavo i suoi gesti quotidiani ed era evidente la sua gioia per la libertà riguadagnata. Lo capivo da come sorseggiava il caffè, rigorosamente corretto “Vecchia”. Teneva sospesa la tazzina e lo consumava con lentezza, mentre ad occhi socchiusi ne coglieva a pieno l’aroma. E quel suo modo di indagare il cielo, augurandosi il vento e la pioggia, o la neve, per riceverli sul viso e sentirsi vivo più che mai.

Ci fu anche quella volta in cui stavo giocando a pallone alla Fara. Ero pronto per una rimessa in gioco quando lo vidi lì, sulle Mura, intento a scrutare l’orizzonte con un sigaretta ormai spenta stretta tra le labbra. Era l’immagine più somigliante alla libertà che avessi mai visto.

Un giorno, tornato da scuola, vidi mio padre profondamente turbato. Chiesi a mia madre cosa fosse successo ma non mi disse nulla, scosse solamente il capo.

Era l’una e mezza, avevo fame e corsi in cucina, notando subito che Mario non c’era. Alle prese con piatti e stoviglie vi era il nuovo arrivato, un ragazzo siciliano magro come un chiodo assunto qualche giorno prima per servire ai tavoli. Cuochi e camerieri, sprofondati in un silenzio innaturale, erano concentrati ognuno sulle proprie mansioni. Il mio smarrimento venne risolto dal Genio che, senza preamboli, mi disse: “È morto il Mario, ha avuto un infarto”.

Fu uno schiaffo sul viso, doloroso quanto inatteso. Trattenni le lacrime. Non era giusto, avevo ancora tante domande da porgli. Pensai che forse non volesse più rispondermi e per questo se ne era andato per sempre. Il Genio insistette per farmi bere un bicchiere d’acqua: “Vedrai che poi stai meglio.”

Ma io non desideravo affatto stare meglio. Volevo tenermi per un po’ tutto il dispiacere di aver perso Mario. Un uomo che ricordo con affetto per la sua schietta e ruvida umanità, a cui sarò sempre grato per avermi rivelato una visuale differente sulla complessità della vita.


Al ghè amò ol Mimmo?

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Per chi si occupa come noi di ristorazione e di ospitalità, l’espressione “scendere in ristorante” fa parte del lessico quotidiano. Abitare al piano di sopra, infatti, semplifica la vita e non di poco.

Nei suoi ultimi anni, a papà capitava spesso di “scendere in ristorante”, ma solo nelle ore più quiete. Come alle sei del mattino. Il momento in cui, dopo aver impastato e infornato i suoi amati filoni, inebriato dal profumo del pane e in completa solitudine si dedicava alla lettura, pagina dopo pagina, de L’Eco di Bergamo.

Oppure alle tre del pomeriggio, l’ora in cui il vociare ininterrotto di clienti e camerieri si interrompeva bruscamente per lasciare spazio al silenzio. Vestito di tutto punto, giacca, cravatta e camicia stirata con cura, papà raggiungeva la sua postazione prediletta - un’ampia poltrona ben occultata dalla cassa e dalle foglie pendule del ficus - per rendersi invisibile al mondo circostante.

Armato di matita Faber Castel perfettamente appuntita e gomma immacolata, nostro padre consacrava il proprio “scendere in ristorante” a quella che era la sua più grande passione: le parole crociate de La Settimana Enigmistica.

Papà amava troppo starsene lì, seduto dove avrebbe voluto stare per sempre. Dove lo aveva condotto la vita, in quel ristorante che era diventato, anno dopo anno, una casa per tutti. Perché ogni ristorante è una casa e ogni casa è un ristorante. Ce lo ripeteva spesso.

In Città Alta poi, proprio per la sua intimità urbana, dove le distanze si accorciano e la formalità diviene superflua, anche la Corsarola si trasforma in una casa. Anzi, in un lungo corridoio dalle pareti in pietra gravide di storia, dove le porte dei locali e delle botteghe si aprono su vere e proprie stanze.

Succedeva, ogni tanto, che qualcuno aprisse una di queste “stanze” entrando all'improvviso nel ristorante e senza il minimo tatto esclamasse ad alta voce: “Ma al ghè amò ol Mimmo?”.

Sarà stato un caso, ma ciò avveniva sempre nel primo pomeriggio. Dal suo nascondiglio papà replicava a tono, con quell’ironia pacata e sottile che lo distingueva.

Le sue risposte erano ogni volta differenti. Con apparente distacco e serietà rispondeva: “Sì, c’è ancora, ma è andato a giocare al lotto il 47: morto che parla”. Oppure: “Certo che c’è ma se ne sta in giardino a bagnare le piante per evitare gli scocciatori”. O ancora: “Sì, ma è andato al cinema. Perché almeno là, al pomeriggio, non c’è nessuno”.

Altre volte, invece, dopo un rapido scambio di battute, papà coinvolgeva l’avventore di turno nella soluzione di un cruciverba particolarmente complesso. Di solito il Bartezzaghi.

Ci fu anche quella volta in cui entrò un cliente abituale che gli disse: “Ma lo sa che stanotte ho sognato che lei era morto? Allora sono venuto a verificare di persona”. La sua risposta fu come al solito immediata: “L’ha sognato stanotte? Che giorno è oggi, il 27? Bene, andiamo subito a giocarcelo al lotto!”.

Nostro padre era fiero delle proprie origini meridionali. I tanti anni vissuti prima a Milano poi a Bergamo non avevano affatto scalfito il suo senso tragicomico dell’esistenza né tanto meno la sua adesione al celebre aforisma del suo amato Eduardo: essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male. Così, in quei momenti, non mancava mai di toccare ferro ma gli faceva enorme piacere essere ancora nei pensieri dei suoi clienti.

Papà adorava anche Totò. A me lo ricordava in molte occasioni, per quella prontezza nelle battute, per quel suo modo sempre lieve di creare intenzionalmente degli equivoci che ogni volta finivano in risata. Brevi momenti di intervallo tra un otto verticale e un cinque orizzontale. Continui incroci, sulla carta come nella vita.


Viva il parroco!

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Nel tardo pomeriggio del 2 giugno 1963, Piero Gardoni capitano dell’Atalanta alza al cielo la Coppa Italia, ad oggi l’unico trofeo presente nella bacheca nerazzurra. Trascorrono poco più di ventiquattro ore e si spegne Papa Giovanni XXIII. Per la gente bergamasca si passa da una gioia intensa, seppur limitata al frivolo mondo del pallone, a un dolore immenso per la morte dell’amato Papa Buono.

Da quel giorno, però, Bergamo divenne meta irrinunciabile di un turismo religioso molto fervido e intraprendente. Un’onda lunga, lunghissima, che si propagò per quasi due decenni in cui i fedeli, dopo aver visitato la casa natale di Angelo Roncalli a Sotto il Monte, venivano a scoprire le bellezze di Città Alta.

Per la pausa ristoratrice del pranzo molti di questi gruppi organizzati si fermavano da Mimmo. In questi casi, è abitudine consolidata concordare precedentemente il menù attraverso l’agenzia di viaggi che ha pianificato la trasferta. Quella volta, invece, non tutto andò per il verso giusto e il fin troppo entusiasta gruppo parrocchiale di Rosarno, un paese della piana di Gioia Tauro in provincia di Reggio Calabria, ci diede davvero molto filo da torcere.

Di quei calabresi veraci e passionali tutti noi italiani dobbiamo esserne orgogliosi. Rosarno è il primo Comune d’Italia a essersi costituito parte civile in un processo contro la mafia, ottenendo anche un risarcimento dei danni patrimoniali, morali e di immagine causati dai malavitosi.

Appena seduti ai tavoli del ristorante, in quell’occasione i nostri amici rosarnesi si dimostrarono sorprendentemente indisciplinati. In un vociare continuo al limite della gazzarra, cominciarono a richiedere piatti fuori menù e vini non previsti.

Era un gruppo davvero numeroso, una cinquantina di persone, e i nostri camerieri - anche i più esperti come Gildo e Genio - non riuscivano più a gestire la situazione. Così, nella frustrazione più totale, mi implorarono di intervenire.

Conoscendo i lati più ruvidi del carattere che distingue la stirpe calabrese, il cui sangue mi scorre con orgoglio nelle vene, dovevo agire con estrema diplomazia. Mi rivolsi quindi al parroco, l’indiscusso capo di quella spedizione in terra lombarda, un uomo di bassa statura ma dalla stazza decisamente importante, un “omo de panza e de sostanza” che irradiava autorità e carisma.

Gli spiegai con garbo la situazione, informandolo che non era possibile cambiare il menù e che bisognava attenersi a ciò che avevamo concordato. Il prelato mi ascoltò annuendo solennemente tutto il tempo, dopodiché si alzò e con un gesto plateale della mano chiese il massimo silenzio all’intera tavolata. Senza offrire alcun diritto di replica impose ai suoi conterranei di rispettare la regola del menù prestabilito con l’unica concessione di poter scegliere tra vino bianco e vino rosso.

I parrocchiani ubbidirono alla loro massima autorità e io, felice di poter finalmente far partire il banchetto, mi avvicinai nuovamente al religioso per ringraziarlo. Lui mi strinse con forza la mano e mi sussurrò all’orecchio: “A me il vino piace rosato, ci siamo intesi?”.

Restai impietrito. Avrei voluto rispondere che non era giusto, che il suo atteggiamento per nulla coerente avrebbe creato lamentele e malumori tra i suoi compaesani. Ma di fronte al suo sguardo fisso e risoluto, avvertendo ancora la stretta della sua mano che non mollava la mia, annuii sommessamente, come Fantozzi dinanzi al direttore mega galattico.

Quando finalmente si decise a lasciarmi la mano ormai indolenzita, il parroco sentenziò: “Bravo, ricordati che il re non porta corna”. È un detto calabrese che significa: chi comanda è al di sopra della legge e delle regole. Insomma, era nella posizione di poter predicare bene e razzolare male. E soprattutto bere meglio.

Dopo qualche giorno, ripensai all’accaduto, a quel pranzo un po’ grottesco così intriso di italianità. Se solo avessi ripreso con la telecamera quel banchetto avrei potuto partecipare a un festival del cinema, proponendo un filmato capace di raccontare le pecche e le virtù italiche con grande realismo e una buona dose di ironia.

Sono trascorsi almeno quarant’anni da quell’indimenticabile convivio: noi italiani siamo e saremo sempre così. La prossima volta, però, mi organizzerò meglio. Sono certo di portare a casa il premio alla miglior sceneggiatura originale.

Robi


La lettura di Famiglia Cristiana

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Per tradizione familiare e indole propria, nostra madre aveva un profondo senso religioso, una sincera fede cattolica che sin da bambina l’ha accompagnata in tutta la sua esistenza.

Con suo grande rammarico, l’impegno ininterrotto al ristorante le impediva di frequentare regolarmente la chiesa, sia la domenica sia nelle feste di precetto. Mamma era perennemente in prima fila Da Mimmo - tra fuochi, padelle e faccende varie - anche a Natale e Pasqua e non si poteva certo muovere da lì.

Per lei era un autentico cruccio. Tuttavia, il suo temperamento tutt’altro che arrendevole, la spinse a ricercare il modo migliore per riparare a quella che lei viveva come una grave mancanza.

Fu così che colse al volo la proposta della nostra parrocchia, quella di Sant’Agata del Carmine, di distribuire Famiglia Cristiana e contribuire alla raccolta dei fondi necessari alle numerose attività in cui era impegnata la chiesa di quel borgo, all’epoca un po’ sgarrupato, posto al cuore di Città Alta.

Con sorprendente abilità, ogni settimana mamma Lina riusciva a vendere l’intero pacco di riviste che le veniva assegnato. Che si fosse iscritta segretamente a un corso per piazzisti porta a porta senza dircelo? Proprio no, ma il trucco c’era...

Nei primi anni Sessanta, da Mimmo lavoravano molti ragazzi provenienti dall’Italia del Sud. Lasciate le famiglie di appartenenza, costoro si trasferivano qui pronti a rimboccarsi le maniche per dare una mano anche ai parenti meno fortunati che erano rimasti a casa.

Nostra madre sentiva una grande responsabilità nei confronti di questi volenterosi figli del Meridione. Credeva fortemente nel ruolo educativo della famiglia e per il periodo in cui costoro “faticavano” al ristorante per lei erano altri figlioli a cui provvedere, una prole allargata sui cui vigilare con amorevole rigore.

Per questo, con l’intento di tenere vivo il sentimento che questi giovani nutrivano per i loro congiunti, mamma consegnava ad ognuno di loro una copia del settimanale di ispirazione cattolica. Senza tralasciare, nei giorni successivi, di verificare con un pizzico di astuzia che l’avessero letta.

I ragazzi erano convinti che il gesto di mamma fosse totalmente gratuito ma non era così, perché alla fine del mese lei detraeva il dovuto dalle loro mance.

I più spavaldi azzardavano timide proteste ma nostra madre era inflessibile nel ricordare loro che “tutto va pagato altrimenti non se ne coglie il valore e l’importanza”. E poi, lo scopo era doppiamente benefico: un aiuto concreto alla chiesa e una lettura educativa orientata a preservare i valori della famiglia.

Chi gongolava felice era ovviamente Don Marcello - credo si chiamasse così il parroco di Sant’Agata del Carmine - che, oltre a rimpinguare le casse parrocchiali sempre bisognose di nuova linfa, poteva contare su una sana formazione cattolica a questi giovani arrivati in Città Alta che solo una rivista seria e istruttiva come Famiglia Cristiana poteva garantire.

Mamma Lina, di cui era percepibile in ogni gesto il suo cuore generoso e altruista, poteva contare anche su uno straordinario carisma. Non aveva mai la necessità di proferire verbo, bastava un’occhiata per comunicare con esattezza il suo pensiero.

Nella sincerità del suo sguardo c’era tutta la buona fede che animava le sue azioni. I ragazzi se ne rendevano conto e per questo non se la prendevano più di tanto. E se qualcuno di loro alla consegna della rivista alzava gli occhi al cielo pensando al pacchetto di sigarette che per volontà altrui si tramutava in una rivista, la maggior parte abbozzava un sorriso.

Il quegli anni, il nostro ristorante partecipava più che mai alla vita del borgo, svolgendo un ruolo attivo all’interno della comunità di Città Alta. Era un modo di essere e di vivere ben lontano da quello di oggi ma che allora rappresentava la norma. Da Mimmo non era solo un “bar ristorante pizzeria”, era una piccola impresa profondamente legata al proprio territorio e alla propria gente. Tra quelle mura antiche, un tempo appartenute alla Serenissima, dimorava uno straordinario concentrato di emozioni e sentimenti condivisi.

Chissà se mamma da lassù approverebbe i tanti cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nella gestione di un ristorante di famiglia come il nostro. A noi sembra di vederla: un accenno di dubbio nello sguardo subito cancellato dalla grande fiducia nei suoi figli e nel domani. Il tutto, in rigoroso silenzio.


Quelle sfide al Faracanà

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L’Estádio Jornalista Mário Filho di Rio de Janeiro, meglio noto come Maracanà, è lo stadio più famoso del mondo. Su quel rettangolo verde inaugurato in occasione dei Mondiali del 1950 ci hanno giocato Pelé e Garrincha, Zico e Romario.

A noi di Città Alta piaceva affibbiare soprannomi, per tutti e per tutto. Così, quando giocavi alla Fara, a metà degli anni Settanta, quel terreno di gioco spelacchiato e pieno di buche per noi era il Faracanà. Un parto della nostra fervida fantasia, quella di chi vedeva poco la tv e usava molto l’immaginazione. E che praticava il nobilissimo sport della “pallastrada”, secondo le regole raccolte da Stefano Benni anni dopo nella Compagnia dei Celestini.

Che poi su quel campo si imparava davvero a giocare: tutto diventava un esercizio di psicocinetica - quella capacità insita in ognuno di noi di pensare e successivamente eseguire un gesto in una frazione limitata di tempo. Un’abilità in cui ad esempio eccelleva Johan Cruijff, da lui inconsapevolmente affinata in strada, da bambino, tra i muretti e i marciapiedi di Betondorp, un quartiere alla periferia di Amsterdam.

Era l’epoca delle sfide tra scapoli e ammogliati e dei tornei aziendali, non poteva mancare quello tra i bar di Città Alta. Un campionato animato da sfide accesissime, intrise di sudore e polvere, a cui partecipavamo anche noi con una squadra tra le più agguerrite.

Peccato per le maglie che erano gialloblù. I colori li aveva scelti mio fratello maggiore, poco interessato al calcio e ben lontano dalle gioie e i dolori che ti regala il pallone di cuoio, e quindi ignaro del fatto che quelli erano i colori del Verona, in quegli anni la squadra più invisa al popolo milanista. Tutta colpa della “Fatal Verona”, con uno scudetto quasi cucito sulle maglie del Milan sfumato proprio all’ultimo momento il 20 maggio 1973. Ma di questo ne parlerò un’altra volta...

Con grande disappunto mio e di mio padre, entrambi con il cuore a strisce rosse e nere, ci toccò accettare il giallo e il blu come colori sociali del “RIST. MIMMO”, la scritta che campeggiava orgogliosamente sul petto delle nostre divise in lanetta leggera, ben diverse da quelle in microfibra traspirante che si usano oggi.

“Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l’Italia stesse vincendo sull’Inghilterra per 20 a 0 e che avesse segnato anche Zoff di testa, su calcio d’angolo”.

La celebre scena fantozziana non è nulla a confronto delle narrazioni mitiche e illazioni fantastiche che si raccontavano a bassa voce durante il torneo dei bar di Città Alta. Presunti ingaggi di giocatori professionisti avvezzi ai campi di Serie C. Gente che per l’occasione si era tagliata i capelli e fatta crescere i baffi così da non essere riconosciuta. Qualcuno azzardava che, sotto mentite spoglie, fosse presente un giocatore di serie A. Uno che se da giovane non si fosse infortunato sarebbe stato più forte di Rivera.

In quelle sere di giugno mitigate da una brezza leggera proveniente dalla Roncola o da chissà dove, chi scendeva in campo al Faracanà si sentiva un vero professionista e non avvertiva alcuna distanza tra lui e chi giocava a San Siro o al Brumana. Forse era la presenza degli arbitri in giacchetta nera e il loro atteggiamento severo e autoritario, o forse era il calore del pubblico, sempre numeroso e festante.

Durante le partite, spesso lo sguardo si posava su quel meraviglioso edificio allora abbandonato che era Sant’Agostino, con il rischio di perderti l’uomo che stavi marcando o di calibrare male la punizione. Peraltro, nello stesso periodo, sul piazzale della chiesa sconsacrata c'era la Festa dell'Unità. Terminate le disfide pedatorie, era spontaneo traslocare di pochi metri per proseguire la serata tra salamelle, birre gelate e immancabili discussioni. Si litigava su fuorigioco non visti grandi come una casa, arbitraggi di parte e interventi da macellaio restati impuniti. Il pallone, poi, spesso e volentieri finiva giù dalle Mura e noi ragazzi correvamo a prenderlo. Non subito, però, solo dopo aver contrattato una lauta mancia.

Come ci ricorda Gianni Brera “il calcio è il più bel gioco del mondo perché tutti l’hanno giocato almeno una volta nella vita, basta avere due gambe, belle o brutte che siano, e su qualsiasi palcoscenico, dal corridoio di casa al cortile, dall’aiuola del giardino alla pubblica via”.

Oggi di spazi liberi, aperti a tutti, dove tirare due calci al pallone ce ne sono sempre meno. Uno dei pochi rimasti a Bergamo è proprio la Fara, o meglio, il Faracanà. E se una di queste sere ci vedessimo lì? Il pallone lo porto io. Sono indeciso tra il Tango Rosario dell’Adidas che conservo gelosamente o un Super Santos da spiaggia che va sempre bene. Ci penso un attimo. 

Robi


Gentile, come il suo nome

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È inevitabile. Quando sei piccolo e cresci in un ristorante, da mattina a sera incroci il mondo dei grandi. Un universo misterioso quello degli adulti, attraente e spesso incomprensibile, dove è subito chiaro che si “sbaglia da professionisti” per dirla alla Paolo Conte.

Oggi i bambini non trascorrono più il loro tempo nei luoghi di lavoro dei genitori ed è giusto così, ma negli anni Sessanta, soprattutto in un ristorante di famiglia, era la norma. Casa e bottega, con gli affetti familiari che inevitabilmente si intrecciano con le relazioni di lavoro. Le distanze si accorciano e puoi affezionarti anche a figure di passaggio, non per questo meno importanti.

È stato così anche per me. Affascinato sin dalla più tenera età dalla figura istrionica del cuoco, un po’ alchimista e un po’ prestigiatore, legai subito con lo chef Ilario Gentile, per tanti anni alla guida della brigata in cucina del ristorante Da Mimmo.

Ilario era un uomo esile, dal viso scavato e lo sguardo malinconico, a cui per celia o paradosso era stato affibbiato il soprannome di Ciccio.

Non lo vidi mai senza la sua “toque” bianca, alta e inamidata. Ben lontano dai Cracco e Barbieri che dilagano oggi in tivù, Ciccio era misurato nei gesti, rapido ed essenziale in ogni suo movimento. Si destreggiava con grande abilità tra fuochi e padelle senza mai perdere la calma o alzare la voce coi sottoposti, anche il sabato sera o la domenica a pranzo, quando i coperti erano davvero numerosi.

Nato a Pizzo Calabro ma genovese d’adozione, il suo accento tradiva i tanti anni vissuti all’ombra della Lanterna. Un uomo di mare che lasciò presto la terra ferma per svolgere la sua professione sulle navi da crociera.

Era bellissimo ascoltare i suoi racconti di quando navigava per mari e oceani dai nomi esotici a me sconosciuti. Storie di onde alte come palazzi e di porti malfamati a cui era meglio non avvicinarsi. Erano gli anni in cui la domenica sera l’Italia intera si fermava per seguire le gesta di Kabir Bedi nel ruolo di Sandokan, la Tigre della Malesia, l’eroe senza macchia e senza paura protagonista dei romanzi di Emilio Salgari.

Ciccio, che per i suoi baffi sottili e ben curati io associavo a Yanez de Gomera, l’amico fidato di Sandokan, era capace di condurmi proprio là, dove l’acqua salata ha il colore del cobalto e la sabbia è sottile e bianchissima.

Io, bimbo vivace in perenne movimento ma inspiegabilmente inappetente, mangiavo solo quello che mi cucinava lui. Niente di particolarmente elaborato ma il suo risotto al pomodoro è ancora oggi la mia personale madeleine, capace di riportarmi in un attimo, con dolcezza e malinconia, alla spensieratezza di quegli anni. Ciccio se la cavava egregiamente anche con i dolci, preparava un’eccellente crema pasticcera che mi faceva assaggiare ancora tiepida in una tazza riservata a me.

Da lui ho imparato anche una discreta varietà di parolacce, ovviamente in genovese stretto: passatempo irresistibile per qualsiasi bambino. Ne intuivo solo vagamente il significato ma avevano una musicalità suadente e levigata, ben diversa da quelle che apprendevo dai camerieri bergamaschi, ruvide e taglienti. Del resto, in un ristorante come il nostro potevi ascoltare ogni genere di dialetto. Si viveva in un’autentica commedia dell’arte dove Capitan Spaventa e Peppe Nappa, Gioppino e Pulcinella, recitavano a soggetto nella stessa messinscena.

Che poi, a ben guardare, Da Mimmo è ancora così, anche se i dialetti regionali sono stati sostituiti dalle lingue di tutto il mondo.

Venne un giorno, purtroppo, in cui Ciccio si ammalò. Mio padre mi disse che si sarebbe presto assentato ma il mio eroe salgariano non era certo un uomo dalla resa facile. Continuò a lavorare nella cucina del ristorante ancora per diverso tempo, finché quel giorno da me tanto temuto arrivò. Se ne andò con un sorriso appena accennato, lasciandomi per sempre il ricordo del profumo del suo pesto alla genovese. Gentile, come il suo nome.

Robi


Prima finisco il ragù

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Il 1965 fu un anno ricco di avvenimenti. Mentre Vittorio De Sica vinceva l’Oscar per il miglior film straniero grazie a “Ieri, oggi, domani” e all’indimenticabile spogliarello di Sophia Loren, al Milan arrivarono Sormani, Angelillo e l’arcigno difensore tedesco Karl-Heinz Schnellinger che indosserà per 334 volte la maglia rossonera.

In quell’anno accaddero altri fatti meno eclatanti ma pur sempre meritevoli di essere citati: il Canada cambiò la propria bandiera, scegliendo come simbolo la foglia d'acero, e poi sono nato io. Alle ore 5.30 di lunedì 3 maggio - lo stesso giorno in cui vennero al mondo Niccolò Machiavelli e Massimo Ranieri - Diego Roberto Amaddeo, quinto di sette figli, emise il suo primo vagito.

Nel 1965, poi, non si era ancora attenuata l’onda emotiva generata dalla morte di Papa Giovanni XXIII avvenuta nel giugno di due anni prima. Erano moltissimi i gruppi di fedeli che arrivavano a Bergamo per visitare i luoghi dove Angelo Roncalli, il Papa Buono, aveva trascorso parte della propria esistenza.

Fu così che Bergamo scoprì i vantaggi del turismo religioso e Città Alta divenne una delle mete più frequentate dalle comitive di credenti e pellegrini giunti fin qui per celebrare il ricordo inestinguibile del pontefice nato a Sotto il Monte, amatissimo in tutto il mondo.

Era di maggio, come cantava Roberto Murolo, precisamente la sera del 2 maggio 1965. L’attenzione di mia madre era rivolta completamente alla preparazione del ragù con il quale avrebbe condito le lasagne necessarie a sfamare il gruppo di devoti in arrivo Da Mimmo il giorno seguente.

Il cucchiaio di legno carezzava la carne tritata intenta a soffriggere nella grande padella d’alluminio mentre nell’aria lo sfrigolio dell’olio rivaleggiava con il vociare continuo di cuochi e camerieri.

Fu questione di un istante e mia mamma riconobbe un dolore già provato altre volte, esattamente quattro, quello dalle doglie. Mio padre giunse immediatamente richiamato dal personale di cucina. La fece accomodare su una sedia e le disse di stare tranquilla, sarebbero andati subito all’ospedale. Con tutta la calma del mondo, mia madre rispose: “Prima finisco il ragù”.

Papà non volle sentire ragioni, adesso andava a prendere la Giardinetta parcheggiata sul retro. Io non c’ero, ovviamente, e debbo fidarmi delle testimonianze di chi invece era presente alla scena: mamma guardò papà dritto negli occhi e con uno sguardo che non ammetteva repliche ribadì: “Ho detto che prima finisco il ragù”. E così avvenne.

Per tutti noi figli di ristoratori, questi episodi rappresentavano il quotidiano: il lavoro e la famiglia erano, e lo sono anche oggi, assolutamente inscindibili. Quello di mia mamma non fu né un atto eroico né scellerato. Era il senso di responsabilità, insito in quella generazione, nel mantenere gli impegni presi. Per mia madre e per tante altre donne dell’epoca quella era la normalità: prima il dovere e poi il dovere.

Ma tornando al suo ragù, come ci svela Eduardo in “Sabato, domenica e lunedì”, il trucco sta nella cipolla. “Più ce ne metti più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera. Via via che ci si versa sopra il vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”.

Ecco perché, citando sempre De Filippo: “'O rraù ca me piace a me, m' 'o ffaceva sulo mammà.”

Crescendo e maturando ho cercato una chiave di lettura, anche ironica, per interpretare questo episodio. Con la saggezza che qualche volta accompagna l’imbiancare dei capelli penso di averla trovata: nella vita esistono delle priorità e io vengo dopo il ragù. In fondo, però, non mi è andata così male. Come direbbe Massimo Troisi, se non puoi essere il primo cerca almeno di essere il secondo.

Robi


Proprio come Bobet

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Era il 1956 e, quando nostro padre aprì Da Mimmo in Città Alta, in tutta Bergamo e provincia non si riusciva a trovare una sola mozzarella. Un latticino sconosciuto e dall’aura esotica assolutamente irreperibile nelle lande orobiche. Ma senza mozzarella come fai a fare la pizza? Non ci sono alternative: bisogna andare a Milano a prenderla.

Fu così che papà, ogni lunedì, si alzava prima dell’alba e si metteva in sella al fedele Mosquito, il suo destriero col “rullo”, per raggiungere la metropoli tentacolare e acquistare un po’ di prezioso fiordilatte. Giusto la quantità necessaria per preparare qualche pizza da far assaggiare ai suoi nuovi compaesani. Forse un po’ chiusi e sospettosi, ma vedrai che una volta provata la pizza…

"Per affrancarsi dalla schiavitù dei pedali", “per tutte le strade e per tutte le borse”, recitavano le pubblicità Garelli dell’epoca. Fornito di un piccolo motore ausiliario pensato per le biciclette, il Mosquito era proprio quello che gli serviva.

D’inverno doveva vedersela con il buio, il freddo e sovente anche la nebbia, mentre in primavera capitava spesso che gli facesse compagnia la pioggia. Per non parlare del sole rovente che in estate seguiva implacabile il suo rientro a casa.

Percorreva chilometri e chilometri che si dipanavano tra strade appena asfaltate e qualche sterrato, attraversando paesi e borgate, e per un lungo tratto costeggiando l’Adda. Leggero all’andata ma carico al ritorno - perché quindici chili di mozzarella sono tanti - nostro padre arrivava sfinito in Città Alta, con le gambe doloranti ma le mani ben salde sul manubrio, percorrendo a piedi l’ultima salita.

Sì, perché il motore del Mosquito poteva essere disinserito per consentire la marcia come semplice bicicletta. Allo scopo di risparmiare un po’ sul carburante, per lunghi tratti papà pedalava come un navigato passista, abile nel gestire le proprie forze, alle prese con una tappa decisiva del Giro d’Italia o del Tour de France.

Ci raccontava che, per affrontare le intemperie e la fatica, spingeva forte sui pedali immaginando di essere Louison Bobet. Figlio di una terra dominata dal vento e dalla pioggia - la Bretagna - che si affaccia su un mare vigoroso e prepotente, Bobet fu uno dei grandi campioni che animò il ciclismo eroico del dopoguerra, vincendo per tre volte consecutive la “Grande Boucle”.

Compagni e avversari lo chiamavano il ciclista gentiluomo e papà lo ammirava al pari del talentuoso ed elegante Fausto Coppi, il Campionissimo, e del mai domo “Ginettaccio” Bartali.

L’immedesimarsi in Bobet moltiplicava all’inverosimile le sue energie, consentendogli ogni lunedì di tagliare il traguardo sulla Corsarola, stremato ma sempre a braccia alzate.

Anche da anziano, Mimmo ricordava con nostalgia quel pedalare mattutino in sella al suo Mosquito. Certo, gli anni Cinquanta non erano più l’epoca in cui, prima di mettersi in cammino per Milano, i bergamaschi facevano testamento, ma era pur sempre un viaggio avventuroso e con non poche insidie.

D’altronde, papà sapeva di non poter fare altrimenti. Lunga vita ai casoncelli e alla polenta con il coniglio, ma senza il fiordilatte come avrebbe potuto far amare la vera pizza napoletana agli abitanti di Città Alta?


Certo, è Tony Cucchiara!

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In quella calda e indolente serata di fine giugno, da Mimmo si presentò un uomo alto, distinto, dallo sguardo tenebroso. Si accompagnava a una donna splendida, seducente ed elegantissima, ma noi avevamo occhi solo per lui.

Massimo, Mauro ed io l’avevamo riconosciuto al primo sguardo: era Cesar Luis Menotti, l’allenatore dell’Argentina campione del mondo!

Il Gildo, ossequioso come non mai, li accompagnò al tavolo mentre noi tre corremmo subito da nostro padre in preda a un’eccitazione incontenibile: “Papà, hai visto chi è entrato?”, “L’hai riconosciuto anche tu?”.

Senza perdere il suo inconfondibile aplomb, papà emise la sentenza: “Certo, è Tony Cucchiara”.

Dopo un attimo di smarrimento montò la protesta, a cui si aggiunsero timidamente il Gildo e qualche altro cameriere. “Ma no, papà, guardalo bene!”. “Dai, è Menotti, l’allenatore dell’Argentina!”. “E poi chi è Tony Cucchiara?”.

Il dubbio che ci stesse prendendo in giro lo abbiamo ancora oggi ma non ci fu verso di fargli cambiare idea. Amante della musica e poco incline agli splendori e alle miserie del calcio, per lui quello era Tony Cucchiara, un cantante in voga negli anni Sessanta che nei decenni a seguire scrisse diversi musical di successo.

Che poi, riguardando oggi le foto dell’epoca, i due si assomigliavano davvero. Il viso affilato, i capelli lunghi e un’ombra di durezza negli occhi, quella di chi nella vita si è fatto valere guardandosi perennemente le spalle.

Soprannominato “El Flaco” per la sua magrezza, Luis Cesar Menotti era un uomo colto e raffinato. Seduto al pianoforte preferiva la brillante rigorosità delle sonate di Scarlatti ai tanghi di Piazzolla o alle languide milonghe di Gardel. Era convinto che al calcio totale degli olandesi si dovesse contrapporre la tecnica individuale argentina e aveva una propria visione del “fútbol” che, come ebbe modo di affermare, si esprimeva nella costante ricerca “dell’efficacia della bellezza”.

Fu proprio durante quel suo soggiorno in Italia, dove trascorse qualche settimana per assistere agli Europei del 1980 - vinti tanto per cambiare dalla Germania, che dichiarò: «La Fiorentina dovrebbe giocare secondo i tratti di Michelangelo o il genio di Leonardo, perché quello è il suo patrimonio e quello deve essere il suo stile».

Menotti era un chimico mancato. Si innamorò di formule e ossidoriduzioni grazie a un professore il cui primo insegnamento era: "sappiate che la vita è come la chimica: va interpretata”. Poi scelse un’altra strada ma non rinunciò mai all’alchimia, che della chimica è parente stretta, applicata ai teoremi e alle geometrie che regolano il gioco del calcio.

Ma tornando a quella magica e per noi indimenticabile serata, noi tre la passammo a sbirciare a turno la coppia seduta al tavolo più appartato della sala. Cercavamo di carpire qualche frase o semplici parole attraverso quella coltre di densa intimità, rafforzata dalla penombra, che proteggeva Cesar Luis e la sua bellissima compagna.

Menotti diceva spesso che il calcio è tre cose: tempo, spazio e inganno. Quella sera, evidentemente, si trasformò in Tony Cucchiara per ingannare papà…


Allegria!

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Così si presentava agli italiani Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, per tutti “Mike”, all’inizio di ogni sua trasmissione. Probabilmente anche quel 26 novembre 1955 alla prima puntata di “Lascia o raddoppia?”, uno dei programmi più amati e seguiti della storia della televisione italiana. Con questo motto grondante entusiasmo e fiducia nel domani, Mike Bongiorno sorrideva a un Paese che aveva tutta l'intenzione di lasciarsi alle spalle le fatiche e i dolori della guerra e si apprestava a vivere il boom economico: “Allegria!”.

Erano gli anni Cinquanta e non tutti potevano permettersi la televisione a casa. Ci si incontrava nei bar e nei ristoranti per vedere “Lascia o raddoppia?”, fu così che seguire la trasmissione nei locali pubblici diventò un momento di autentica aggregazione popolare.

Sensibile al mutare dei tempi, nostro padre fu tra i primi, a Bergamo, a cogliere questa opportunità. Pensò che avere un televisore nel suo locale avrebbe potuto fungere da attrazione per una clientela locale che faticava a comprendere la novità della pizza e dei piatti preparati da nostra madre, pietanze che diffondevano nell’aria i profumi e i sapori dell’Italia del Sud e avevano poco da spartire con le semplici e rassicuranti ricette bergamasche.

Fu così che papà andò dal Geneletti. Questo intraprendente elettricista di mezza età, una vera istituzione in Città Alta, ebbe l’intuizione di convertire la sua bottega artigiana in un negozio di piccoli elettrodomestici. Era un’Italia che cresceva e il benessere spesso era rappresentato dall’acquisito di un forno o di un frigorifero. Non ancora dalla tivù, al momento ritenuta voluttuaria, ma che presto sarebbe entrata in tutte le case degli italiani.

Papà pagò a rate il televisore, un investimento importante inizialmente osteggiato da Lina, nostra madre, che lo riteneva tutt’altro che essenziale. Anche quella volta ebbe ragione lui, perché ogni giovedì sera il locale si affollava di persone che, oltre a mangiare una pizza o un fritto di pesce, assistevano con chiassosa partecipazione al quiz del Mike nazionale.

Sì, proprio il giovedì, non più il sabato come era stato per le prime puntate della trasmissione. Lo spostamento al giovedì era stato richiesto dalle associazioni che rappresentavano i gestori dei locali pubblici. Il sabato era già la serata più remunerativa della settimana, spesso l’unica, allora perché non raddoppiare le sere redditizie?

In breve tempo si sparse la voce e i clienti cominciarono ad arrivare anche dalle valli, non solo il giovedì ma pure al sabato sera e alla domenica a pranzo. Venivano principalmente per gustare la pizza di Mimmo, magari osando addirittura un arancino di riso o un piatto di calamari.

Quella di papà fu una vera e propria azione di marketing, né la prima né l’ultima. Strategie istintive che avevano l’obiettivo di ampliare la clientela, certo, ma anche di rendere felici le persone. La sala doveva essere piena, ma di sorrisi e buonumore.

Tra i clienti del giovedì sera non mancava mai il signor Geneletti. Dal fondo della sala, sempre allo stesso tavolo e davanti all’amata pizza capricciosa, sorrideva soddisfatto pensando alla sua attività commerciale in continua espansione. Presto le abitazioni di Città Alta sarebbero state invase dai televisori, i suoi ovviamente. Lo schermo di uno dei primi che aveva venduto stava proprio lì, davanti lui. Ma adesso, per favore, abbassiamo un po’ la voce altrimenti non si capisce cosa sta dicendo Mike a Edy Campagnoli…


Un vecchio posacenere

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Lo sappiamo bene, la vita non è fatta solo di amori travolgenti, amicizie indissolubili o incontri che determinano svolte epocali. Ci sono anche incroci che hanno la durata di un attimo, apparentemente marginali, capaci di lasciare tracce profonde nella nostra esistenza.

È ciò che avvenne in quel pomeriggio afoso di piena estate di qualche anno fa.

Mio padre era mancato da pochi giorni ed io, con la mente affollata da mille pensieri, camminavo a passo svelto lungo la Corsarola, quando mi fermò una donna. Immerso com’ero nelle mie riflessioni non la riconobbi subito. Era Anna, la figlia del vecchio fotografo di Città Alta, amico di papà. Divennero amici grazie alla lunga frequentazione e a una condizione che li accomunava: i tanti figli da crescere. Sette mio padre e otto il padre di Anna.

Giusto il tempo di salutarsi e Anna, con un poco di impaccio, tolse dalla borsa un vecchio posacenere di ceramica. La sorpresa fu grande, non pensavo ve ne fossero ancora. A mio padre piaceva pensare a piccoli gadget da regalare ai clienti più affezionati e quell’oggetto che mi ritrovai tra le mani era uno di questi.

Lo aveva realizzato uno dei tanti artigiani che un tempo popolavano Città Alta, in un’epoca in cui la Bergamo adagiata tra le Mura era un susseguirsi di laboratori e botteghe. Si chiamava Donato ed era un ceramista, veniva dal cuore dalla Basilicata e si era trasferito a Bergamo nel dopoguerra.

La donna insistette perché tenessi io il posacenere. Mio padre lo aveva regalato molti anni prima al suo e ora, secondo lei, doveva ritornare “a casa”. La spontaneità di quel gesto mi commosse e dopo averla ringraziata mi diressi verso casa. Avevo recuperato un prezioso reperto archeologico, un ricordo di famiglia di cui avevo dimenticato l’esistenza.

Ero davvero felice e una volta entrato in casa lanciai il posacenere sul letto certo che sarebbe affondato tra le lenzuola. Per qualche mistero della fisica, invece, rimbalzò e prese il volo, atterrando con fragore sul pavimento in graniglia dopo una piroetta degna di una prima ballerina della Scala.

Non feci in tempo a pentirmi di quel gesto insensato che mi accorsi con grande stupore che il posacenere era rimasto intatto. Un autentico miracolo. Avrebbe dovuto andare in mille pezzi ma non si era nemmeno scheggiato. Il suo destino era quello di restare integro, per divenire un ricordo da conservare gelosamente, per rammentarmi chi era papà, le sue intuizioni e i rapporti sinceri che creava con le persone. E poi, come ha scritto Valerio Magrelli, “io non credo agli spiriti della casa ma ai posacenere sì”.

Raccogliendo da terra l’inestimabile reperto mi apparve un ricordo sopito da chissà quanto tempo. Che fossero le chiavi di casa o uno strofinaccio, mio padre usava lanciare gli oggetti accompagnando il gesto con un “Toh”. In quella parola c’era tutta la soddisfazione per avercela fatta, non solo per aver mandato a buon fine il suo lancio ma per aver reso realtà la maggior parte dei suoi sogni. E quel “Toh”, senza rendermene conto, lo avevo appena pronunciato io nel gettare il posacenere sul letto.

Mi concessi un sorriso pensando a lui, sbadato e un po’ maldestro come il sottoscritto, che preso dalla fretta appoggio di tutto in bilico sulle mensole o sul bordo dei tavoli. Sono davvero come papà. Del resto, si dice che il frutto non cade mai lontano dalla pianta.

Robi


Il baccalà dell’Annunziata. Una storia di famiglia.

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Alle origini di un piatto ci sono intuito, passione e piccoli segreti che lo rendono unico. È il caso del nostro “baccalà dell’Annunziata”, un piatto ricco e saporito che prepariamo tutto l’anno, chiamato così nel ricordo di nostra nonna.

Annunziata era siciliana. Viveva a Patti, vicino a Messina, ed era bellissima. I capelli lucidi e corvini, la pelle ambrata, un’autentica saracena. Era anche decisamente alta per l’epoca, al contrario di Paolo, di bell’aspetto ma di bassa statura. Lui era calabrese di stirpe normanna. Nato a Reggio Calabria, portava con sfrontatezza la sua zazzera bionda e ammaliava tutti con i suoi occhi azzurri che non lasciavano scampo.

Si sa, in amore gli opposti si attraggono, ma i due non erano differenti solo nell’aspetto, lo erano anche per ceto sociale. Pur non provenendo da una famiglia ricca, Annunziata era pur sempre la nipote del celebre ammiraglio Luigi Rizzo della Regia Marina, a cui Gabriele D’Annunzio dedicò un’intensa e appassionata poesia. Paolo invece era nato in un ambiente povero, fatto di stenti e rinunce, e si arrangiava vendendo carbone d’inverno e pesce fresco nella bella stagione.

Fu proprio il pescato del giorno al mercato di Messina che gli permise di conoscere Annunziata. In quel mite febbraio del 1918 che preannunciava l’arrivo della primavera e la probabile fine della guerra, tra sarde e sgombri ben disposti sul suo banchetto, Paolo cominciò a corteggiare la bella saracena, la quale tuttavia non lo degnava di uno sguardo pur tornando ogni martedì ad acquistare il suo pesce appena sfilato dalla rete.

Paolo cambiò tattica e, per farla ingelosire, cominciò a cantare una tarantella calabrese per vantare le sue capacità di latin lover: “Sciu sciu sciu quante fimmine che ci su”. Annunziata era indispettita, ma più mostrava indifferenza verso Paolo più lui cantava e rideva. Le schermaglie amorose proseguirono per diverse settimane quando Paolo prese tutto il coraggio che aveva e si dichiarò promettendole di sposarla. Le giurò sul suo cuore innamorato che sarebbe tornato di notte per rapirla: “Facimu a fuitina”. Del resto, quella era l’unica possibilità di evitare i matrimoni combinati, che a quei tempi erano la norma. Così, una sera illuminata dalla luna piena, Paolo si decise, prese la sua barca a remi e attraversò lo Stretto.

Temendo non poco l’ira di Scilla e Cariddi, si raccomandò alla benevolenza della Madonna della Lettera, la cui statua si trova ancora oggi nel Porto di Messina. Paolo remava e cantava con il cuore gonfio d’amore per Annunziata. Arrivò a destinazione provato dalla fatica. Fece qualche respiro profondo per riprendere fiato e si recò sotto la casa della sua amata. Iniziò a lanciare dei sassolini sulle ante socchiuse della finestra fino a quando comparve Annunziata. Lei era titubante, mille paure le affollavano il cuore e la mente, ma Paolo non era mai stato così sicuro dei suoi sentimenti, le disse “Ora o mai più”. Queste parole sciolsero le sue ultime riserve, Annunziata strinse la mano a Paolo e salì sulla barchetta.

Dal loro amore nacque Mimmo, quinto di nove figli. Fu un matrimonio felice, anche se la loro esistenza fu segnata dal duro lavoro e i tanti sacrifici, specie tra le due guerre, quando regnava la miseria e di cibo ce n’era davvero poco. Una volta ogni tanto, però, si faceva festa. Soprattutto a settembre, quando in quella città di mare che dalla costa calabra guarda sorniona lo Stretto si celebra la Madonna della Consolazione. “Cu terremotu, cu guerra e cu paci, sta festa si fici, sta festa si faci!” recita un detto popolare reggino.

In quell’occasione nostra nonna svelava le sue qualità di cuoca provetta. Si procurava lo stoccafisso che poi cucinava con pomodoro, olive, capperi, basilico fresco e un tocco personale che non possiamo svelare. È il baccalà alla messinese secondo Annunziata. Lo prepariamo ancora oggi, arricchito da croccanti cipolle di Tropea in pastella, nel ricordo di quella donna austera e di poche parole che quella notte, salendo sulla barchetta di Paolo, scelse di dare origine alla nostra famiglia.


Il più bel litigio che abbia mai visto

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C’era un tempo, quando i dischi a 78 giri iniziarono a sparire e nessuno si immaginava che un giorno la tv sarebbe diventata a colori, in cui i camerieri indossavano giacca bianca e papillon, rigorosamente nero. Quella divisa, che donava pure una certa eleganza, rappresentava un modo di essere. Sempre affabili e col sorriso, formali quanto basta, i camerieri in giacca bianca e farfallino erano fieri di svolgere la propria mansione.

Il Genio era uno di questi. Lavorava al ristorante Da Mimmo sin dalla sua inaugurazione e teneva moltissimo alla sua giacca, la faceva stirare tutti i giorni alla moglie e controllava con cura che i bottoni fossero ben fissati.

Eugenio, per tutti il Genio, era cameriere per vocazione. Parlava solo in bergamasco e teneva a mente tutto quello che i clienti ordinavano, anche quando si trattava di tavolate sterminate, senza dover ricorrere a penna e bloc notes. Aveva sempre la battuta pronta, tanto che i clienti lo avevano soprannominato Carlo Dapporto, attore di rivista e cabaret famosissimo all’epoca anche per la pubblicità di un dentifricio.

Il Genio doveva confrontarsi quotidianamente con il suo principale, nostro padre, che invece era un uomo proiettato al domani, attento ai cambiamenti di una società che stava evolvendo rapidamente. Il suo modo di lavorare a papà non piaceva, voleva che i camerieri parlassero sempre in italiano e che scrivessero le comande su un taccuino. Ma il Genio era un anarchico, per di più refrattario alla modernità, e le richieste di nostro padre cadevano puntualmente nel vuoto.

Lo scontro era nell’aria, ce lo aspettavamo da un momento all’altro, e giunse all’improvviso. All’ennesima richiesta di correggere il suo atteggiamento, il Genio si esibì in una singolare quanto plateale forma di protesta. Guardò papà dritto negli occhi e con grande aplomb gli disse: “Senta, facciamo così, io mi spoglio la giacca e la lancio verso il soffitto, se resta su resto anche io, se cade a terra me ne vado all’istante”. Mimmo scosse la testa osservando la divisa planare ai suoi piedi. Il Genio raccolse con calma la sua giacca bianca e se ne andò senza dire una parola.

Io e i miei fratelli eravamo increduli, gli eravamo affezionati e ci sembrava impossibile che il Genio se ne fosse andato. In quel modo, poi.

Seguirono giorni avvolti nel silenzio. Solo apparente, in realtà, perché le rispettive mogli avviarono una vera e propria trattativa diplomatica per riconciliare i mariti. Si incontravano sul sagrato della chiesa, lontane da occhi indiscreti, per cercare di risolvere quella situazione.

Ancora oggi, ricordo mia madre Lina dire a mio padre: “Sei stato troppo severo, lo sai com’è fatto il Genio”. Aggiungendo poi un vera perla di saggezza: “Avere delle ragioni non vuol dire aver ragione”. Ma papà era convinto di aver agito nel giusto e di non aver commesso alcuno sbaglio. Perché scusarsi? E di cosa?

Trascorse ancora qualche giorno quando mia madre ed Enrica, la moglie del Genio, riuscirono a ottenere che i due di incontrassero. Fu un momento indimenticabile che io e i miei fratelli vivemmo con grande apprensione e tanta emozione. Seduti a un tavolo del ristorante, i due discutevano tra una sigaretta e l’altra, senza mai alzare la voce, ma ognuno fermo sulle proprie posizioni. Sembrava di assistere a uno sfibrante duello già visto in qualche film western. “La pistola sepolta” o “Mezzogiorno di fuoco”.

Era mattina, sul presto, e noi dovevamo andare a scuola ma non potevamo andarcene senza sapere come sarebbe andata a finire. Per fortuna, giunsero Lina ed Enrica e li costrinsero ad accettare le reciproche scuse. I due uomini finalmente si strinsero la mano, poi il Genio guardò la moglie e le chiese: “La giacca è stirata?”. Accompagnando le proprie parole da uno sguardo eloquente, Enrica gli rispose in bergamasco: “Tel set che l’è stirada, fa mia ol bambo che te ghet quater scecc”.

Si concluse così quell’assurda vicenda che ancora oggi considero il più bel litigio a cui abbia mai assistito. L’orgoglio ferito e la ragione a tutti i costi, ma alla fine prevalsero il buon senso e la stima reciproca.

Da quell’episodio sono trascorsi almeno cinquant’anni e oggi nostro padre e il Genio non ci sono più. Sono sepolti a pochi metri di distanza, chissà se nel frattempo mio padre avrà imparato il bergamasco e se il Genio avrà ancora la sua giacca ben stirata?

Robi


Quell’Italia Mundial con Stefano Caglioni

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5 luglio 1982, stadio Sarrià di Barcellona. Sono le ore 17 e 15 e sta per iniziare la partita delle partite: Italia Brasile. Chi vince va in semifinale al Mondiale.

Sono passati più di quarant’anni ma io ricordo ancora le formazioni a memoria. L’Italia schierava Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati - sostituito alla mezzora dal diciottenne Bergomi, lo “zio”, per i baffi da uomo maturo che esibiva con orgoglio - poi Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Sì, c’era anche Ciccio Graziani. Gianni Brera lo definì “ingobbito di generosa broccaggine” ma pure lui, quel pomeriggio, fece la sua parte.

L’avversario era un Brasile davvero imbattibile. Una squadra ricca di talento e forza fisica, genio e sostanza. In realtà aveva due punti deboli, il portiere e il centravanti, ma la formazione faceva davvero paura: Valdir Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho, Socrates, Falcao, Serginho, Zico, Eder.

L’israeliano Klein portò il fischietto alle labbra e la voce inconfondibile di Nando Martellini annunciò l’inizio della partita. E io ero lì, davanti alla tivù del ristorante con i battiti accelerati e la sudorazione delle mani in aumento. Per scaramanzia indossavo la maglietta del Brasile, un regalo di mio padre per il mio diciassettesimo compleanno. Ammiravo quella squadra, ne ero letteralmente stregato, ma quel pomeriggio il mio cuore era completamente azzurro.

Se socchiudo gli occhi rivedo tutto: la maglia di Zico strappata dalle unghie belluine di Gentile, le movenze indolenti di Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio conosciuto come Socrates, e le perfette geometrie disegnate da Falcao, l’ottavo re di Roma. Ma ricordo altrettanto bene i dribbling vertiginosi di Bruno Conti, il ghigno sardonico di Cabrini, il bell’Antonio, e la parata all’ultimo minuto di Zoff.

Sappiamo tutti come andò a finire. Il nostro piccolo grande centravanti segnò tre gol a quel Brasile inarrivabile. Il volto scavato dalla tensione e dalla fatica, Paolo Rossi da quel giorno diventò Pablito, l’italiano più famoso al mondo al pari di Leonardo e Michelangelo.

Poi iniziò la festa, ovunque, in ogni strada o piazza, casa o locale. Anche in Città Alta. Un momento di esaltazione collettiva alla quale si unirono tutti, anche Stefano Caglioni che abitava vicino al Palazzo della Ragione. Aveva fatto il Sarpi e si era laureato in lettere ma per vocazione era un pittore. Sempre con la chitarra in mano e i suoi quadri sottobraccio, era normale incontrarlo in Piazza Vecchia o in giro per Città Alta e spesso ci veniva a trovare.

Quella sera, appena terminata la partita, Stefano si precipitò nel Ristorante urlando a squarciagola “Rossi! Rossi! Rossi!”, esibendo tutta la sua erre moscia. Per l’occasione indossava la maglia azzurra numero 20 di Paolo Rossi, il suo sorriso e lo sguardo stralunato irradiavano felicità pura. Placata l’euforia si sedette al tavolo con me e ordinò una porzione abbondante di calamari fritti, il suo piatto preferito.

Io con la maglia verdeoro della Seleção, lui con la maglia della nostra Nazionale, parlammo tutta la sera di calcio. Non l’avrei detto ma era un vero esperto. Squadre e giocatori, tattiche e allenatori, la conversazione non calava di intensità. Tra un suo ricordo di Ezio Gol, l’atalantino Bertuzzo, e un mio immancabile elogio alla classe sopraffina di Gianni Rivera ebbi modo di fissarlo lungamente negli occhi. Pensavo a quel suo viaggio in India all’inizio degli anni Settanta e a come sarebbe stata la sua esistenza se non ci fosse andato. Avrebbe fatto una vita “normale” come la maggior parte di noi? Forse avrebbe continuato a insegnare lettere in qualche scuola media o liceo della città. Di sicuro non sarebbe stato più felice.

Robi