Allegria!
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Così si presentava agli italiani Michael Nicholas Salvatore Bongiorno, per tutti “Mike”, all’inizio di ogni sua trasmissione. Probabilmente anche quel 26 novembre 1955 alla prima puntata di “Lascia o raddoppia?”, uno dei programmi più amati e seguiti della storia della televisione italiana. Con questo motto grondante entusiasmo e fiducia nel domani, Mike Bongiorno sorrideva a un Paese che aveva tutta l'intenzione di lasciarsi alle spalle le fatiche e i dolori della guerra e si apprestava a vivere il boom economico: “Allegria!”.
Erano gli anni Cinquanta e non tutti potevano permettersi la televisione a casa. Ci si incontrava nei bar e nei ristoranti per vedere “Lascia o raddoppia?”, fu così che seguire la trasmissione nei locali pubblici diventò un momento di autentica aggregazione popolare.
Sensibile al mutare dei tempi, nostro padre fu tra i primi, a Bergamo, a cogliere questa opportunità. Pensò che avere un televisore nel suo locale avrebbe potuto fungere da attrazione per una clientela locale che faticava a comprendere la novità della pizza e dei piatti preparati da nostra madre, pietanze che diffondevano nell’aria i profumi e i sapori dell’Italia del Sud e avevano poco da spartire con le semplici e rassicuranti ricette bergamasche.
Fu così che papà andò dal Geneletti. Questo intraprendente elettricista di mezza età, una vera istituzione in Città Alta, ebbe l’intuizione di convertire la sua bottega artigiana in un negozio di piccoli elettrodomestici. Era un’Italia che cresceva e il benessere spesso era rappresentato dall’acquisito di un forno o di un frigorifero. Non ancora dalla tivù, al momento ritenuta voluttuaria, ma che presto sarebbe entrata in tutte le case degli italiani.
Papà pagò a rate il televisore, un investimento importante inizialmente osteggiato da Lina, nostra madre, che lo riteneva tutt’altro che essenziale. Anche quella volta ebbe ragione lui, perché ogni giovedì sera il locale si affollava di persone che, oltre a mangiare una pizza o un fritto di pesce, assistevano con chiassosa partecipazione al quiz del Mike nazionale.
Sì, proprio il giovedì, non più il sabato come era stato per le prime puntate della trasmissione. Lo spostamento al giovedì era stato richiesto dalle associazioni che rappresentavano i gestori dei locali pubblici. Il sabato era già la serata più remunerativa della settimana, spesso l’unica, allora perché non raddoppiare le sere redditizie?
In breve tempo si sparse la voce e i clienti cominciarono ad arrivare anche dalle valli, non solo il giovedì ma pure al sabato sera e alla domenica a pranzo. Venivano principalmente per gustare la pizza di Mimmo, magari osando addirittura un arancino di riso o un piatto di calamari.
Quella di papà fu una vera e propria azione di marketing, né la prima né l’ultima. Strategie istintive che avevano l’obiettivo di ampliare la clientela, certo, ma anche di rendere felici le persone. La sala doveva essere piena, ma di sorrisi e buonumore.
Tra i clienti del giovedì sera non mancava mai il signor Geneletti. Dal fondo della sala, sempre allo stesso tavolo e davanti all’amata pizza capricciosa, sorrideva soddisfatto pensando alla sua attività commerciale in continua espansione. Presto le abitazioni di Città Alta sarebbero state invase dai televisori, i suoi ovviamente. Lo schermo di uno dei primi che aveva venduto stava proprio lì, davanti lui. Ma adesso, per favore, abbassiamo un po’ la voce altrimenti non si capisce cosa sta dicendo Mike a Edy Campagnoli…
Un vecchio posacenere
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Lo sappiamo bene, la vita non è fatta solo di amori travolgenti, amicizie indissolubili o incontri che determinano svolte epocali. Ci sono anche incroci che hanno la durata di un attimo, apparentemente marginali, capaci di lasciare tracce profonde nella nostra esistenza.
È ciò che avvenne in quel pomeriggio afoso di piena estate di qualche anno fa.
Mio padre era mancato da pochi giorni ed io, con la mente affollata da mille pensieri, camminavo a passo svelto lungo la Corsarola, quando mi fermò una donna. Immerso com’ero nelle mie riflessioni non la riconobbi subito. Era Anna, la figlia del vecchio fotografo di Città Alta, amico di papà. Divennero amici grazie alla lunga frequentazione e a una condizione che li accomunava: i tanti figli da crescere. Sette mio padre e otto il padre di Anna.
Giusto il tempo di salutarsi e Anna, con un poco di impaccio, tolse dalla borsa un vecchio posacenere di ceramica. La sorpresa fu grande, non pensavo ve ne fossero ancora. A mio padre piaceva pensare a piccoli gadget da regalare ai clienti più affezionati e quell’oggetto che mi ritrovai tra le mani era uno di questi.
Lo aveva realizzato uno dei tanti artigiani che un tempo popolavano Città Alta, in un’epoca in cui la Bergamo adagiata tra le Mura era un susseguirsi di laboratori e botteghe. Si chiamava Donato ed era un ceramista, veniva dal cuore dalla Basilicata e si era trasferito a Bergamo nel dopoguerra.
La donna insistette perché tenessi io il posacenere. Mio padre lo aveva regalato molti anni prima al suo e ora, secondo lei, doveva ritornare “a casa”. La spontaneità di quel gesto mi commosse e dopo averla ringraziata mi diressi verso casa. Avevo recuperato un prezioso reperto archeologico, un ricordo di famiglia di cui avevo dimenticato l’esistenza.
Ero davvero felice e una volta entrato in casa lanciai il posacenere sul letto certo che sarebbe affondato tra le lenzuola. Per qualche mistero della fisica, invece, rimbalzò e prese il volo, atterrando con fragore sul pavimento in graniglia dopo una piroetta degna di una prima ballerina della Scala.
Non feci in tempo a pentirmi di quel gesto insensato che mi accorsi con grande stupore che il posacenere era rimasto intatto. Un autentico miracolo. Avrebbe dovuto andare in mille pezzi ma non si era nemmeno scheggiato. Il suo destino era quello di restare integro, per divenire un ricordo da conservare gelosamente, per rammentarmi chi era papà, le sue intuizioni e i rapporti sinceri che creava con le persone. E poi, come ha scritto Valerio Magrelli, “io non credo agli spiriti della casa ma ai posacenere sì”.
Raccogliendo da terra l’inestimabile reperto mi apparve un ricordo sopito da chissà quanto tempo. Che fossero le chiavi di casa o uno strofinaccio, mio padre usava lanciare gli oggetti accompagnando il gesto con un “Toh”. In quella parola c’era tutta la soddisfazione per avercela fatta, non solo per aver mandato a buon fine il suo lancio ma per aver reso realtà la maggior parte dei suoi sogni. E quel “Toh”, senza rendermene conto, lo avevo appena pronunciato io nel gettare il posacenere sul letto.
Mi concessi un sorriso pensando a lui, sbadato e un po’ maldestro come il sottoscritto, che preso dalla fretta appoggio di tutto in bilico sulle mensole o sul bordo dei tavoli. Sono davvero come papà. Del resto, si dice che il frutto non cade mai lontano dalla pianta.
Robi
Il baccalà dell’Annunziata. Una storia di famiglia.
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Alle origini di un piatto ci sono intuito, passione e piccoli segreti che lo rendono unico. È il caso del nostro “baccalà dell’Annunziata”, un piatto ricco e saporito che prepariamo tutto l’anno, chiamato così nel ricordo di nostra nonna.
Annunziata era siciliana. Viveva a Patti, vicino a Messina, ed era bellissima. I capelli lucidi e corvini, la pelle ambrata, un’autentica saracena. Era anche decisamente alta per l’epoca, al contrario di Paolo, di bell’aspetto ma di bassa statura. Lui era calabrese di stirpe normanna. Nato a Reggio Calabria, portava con sfrontatezza la sua zazzera bionda e ammaliava tutti con i suoi occhi azzurri che non lasciavano scampo.
Si sa, in amore gli opposti si attraggono, ma i due non erano differenti solo nell’aspetto, lo erano anche per ceto sociale. Pur non provenendo da una famiglia ricca, Annunziata era pur sempre la nipote del celebre ammiraglio Luigi Rizzo della Regia Marina, a cui Gabriele D’Annunzio dedicò un’intensa e appassionata poesia. Paolo invece era nato in un ambiente povero, fatto di stenti e rinunce, e si arrangiava vendendo carbone d’inverno e pesce fresco nella bella stagione.
Fu proprio il pescato del giorno al mercato di Messina che gli permise di conoscere Annunziata. In quel mite febbraio del 1918 che preannunciava l’arrivo della primavera e la probabile fine della guerra, tra sarde e sgombri ben disposti sul suo banchetto, Paolo cominciò a corteggiare la bella saracena, la quale tuttavia non lo degnava di uno sguardo pur tornando ogni martedì ad acquistare il suo pesce appena sfilato dalla rete.
Paolo cambiò tattica e, per farla ingelosire, cominciò a cantare una tarantella calabrese per vantare le sue capacità di latin lover: “Sciu sciu sciu quante fimmine che ci su”. Annunziata era indispettita, ma più mostrava indifferenza verso Paolo più lui cantava e rideva. Le schermaglie amorose proseguirono per diverse settimane quando Paolo prese tutto il coraggio che aveva e si dichiarò promettendole di sposarla. Le giurò sul suo cuore innamorato che sarebbe tornato di notte per rapirla: “Facimu a fuitina”. Del resto, quella era l’unica possibilità di evitare i matrimoni combinati, che a quei tempi erano la norma. Così, una sera illuminata dalla luna piena, Paolo si decise, prese la sua barca a remi e attraversò lo Stretto.
Temendo non poco l’ira di Scilla e Cariddi, si raccomandò alla benevolenza della Madonna della Lettera, la cui statua si trova ancora oggi nel Porto di Messina. Paolo remava e cantava con il cuore gonfio d’amore per Annunziata. Arrivò a destinazione provato dalla fatica. Fece qualche respiro profondo per riprendere fiato e si recò sotto la casa della sua amata. Iniziò a lanciare dei sassolini sulle ante socchiuse della finestra fino a quando comparve Annunziata. Lei era titubante, mille paure le affollavano il cuore e la mente, ma Paolo non era mai stato così sicuro dei suoi sentimenti, le disse “Ora o mai più”. Queste parole sciolsero le sue ultime riserve, Annunziata strinse la mano a Paolo e salì sulla barchetta.
Dal loro amore nacque Mimmo, quinto di nove figli. Fu un matrimonio felice, anche se la loro esistenza fu segnata dal duro lavoro e i tanti sacrifici, specie tra le due guerre, quando regnava la miseria e di cibo ce n’era davvero poco. Una volta ogni tanto, però, si faceva festa. Soprattutto a settembre, quando in quella città di mare che dalla costa calabra guarda sorniona lo Stretto si celebra la Madonna della Consolazione. “Cu terremotu, cu guerra e cu paci, sta festa si fici, sta festa si faci!” recita un detto popolare reggino.
In quell’occasione nostra nonna svelava le sue qualità di cuoca provetta. Si procurava lo stoccafisso che poi cucinava con pomodoro, olive, capperi, basilico fresco e un tocco personale che non possiamo svelare. È il baccalà alla messinese secondo Annunziata. Lo prepariamo ancora oggi, arricchito da croccanti cipolle di Tropea in pastella, nel ricordo di quella donna austera e di poche parole che quella notte, salendo sulla barchetta di Paolo, scelse di dare origine alla nostra famiglia.
Il più bel litigio che abbia mai visto
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C’era un tempo, quando i dischi a 78 giri iniziarono a sparire e nessuno si immaginava che un giorno la tv sarebbe diventata a colori, in cui i camerieri indossavano giacca bianca e papillon, rigorosamente nero. Quella divisa, che donava pure una certa eleganza, rappresentava un modo di essere. Sempre affabili e col sorriso, formali quanto basta, i camerieri in giacca bianca e farfallino erano fieri di svolgere la propria mansione.
Il Genio era uno di questi. Lavorava al ristorante Da Mimmo sin dalla sua inaugurazione e teneva moltissimo alla sua giacca, la faceva stirare tutti i giorni alla moglie e controllava con cura che i bottoni fossero ben fissati.
Eugenio, per tutti il Genio, era cameriere per vocazione. Parlava solo in bergamasco e teneva a mente tutto quello che i clienti ordinavano, anche quando si trattava di tavolate sterminate, senza dover ricorrere a penna e bloc notes. Aveva sempre la battuta pronta, tanto che i clienti lo avevano soprannominato Carlo Dapporto, attore di rivista e cabaret famosissimo all’epoca anche per la pubblicità di un dentifricio.
Il Genio doveva confrontarsi quotidianamente con il suo principale, nostro padre, che invece era un uomo proiettato al domani, attento ai cambiamenti di una società che stava evolvendo rapidamente. Il suo modo di lavorare a papà non piaceva, voleva che i camerieri parlassero sempre in italiano e che scrivessero le comande su un taccuino. Ma il Genio era un anarchico, per di più refrattario alla modernità, e le richieste di nostro padre cadevano puntualmente nel vuoto.
Lo scontro era nell’aria, ce lo aspettavamo da un momento all’altro, e giunse all’improvviso. All’ennesima richiesta di correggere il suo atteggiamento, il Genio si esibì in una singolare quanto plateale forma di protesta. Guardò papà dritto negli occhi e con grande aplomb gli disse: “Senta, facciamo così, io mi spoglio la giacca e la lancio verso il soffitto, se resta su resto anche io, se cade a terra me ne vado all’istante”. Mimmo scosse la testa osservando la divisa planare ai suoi piedi. Il Genio raccolse con calma la sua giacca bianca e se ne andò senza dire una parola.
Io e i miei fratelli eravamo increduli, gli eravamo affezionati e ci sembrava impossibile che il Genio se ne fosse andato. In quel modo, poi.
Seguirono giorni avvolti nel silenzio. Solo apparente, in realtà, perché le rispettive mogli avviarono una vera e propria trattativa diplomatica per riconciliare i mariti. Si incontravano sul sagrato della chiesa, lontane da occhi indiscreti, per cercare di risolvere quella situazione.
Ancora oggi, ricordo mia madre Lina dire a mio padre: “Sei stato troppo severo, lo sai com’è fatto il Genio”. Aggiungendo poi un vera perla di saggezza: “Avere delle ragioni non vuol dire aver ragione”. Ma papà era convinto di aver agito nel giusto e di non aver commesso alcuno sbaglio. Perché scusarsi? E di cosa?
Trascorse ancora qualche giorno quando mia madre ed Enrica, la moglie del Genio, riuscirono a ottenere che i due di incontrassero. Fu un momento indimenticabile che io e i miei fratelli vivemmo con grande apprensione e tanta emozione. Seduti a un tavolo del ristorante, i due discutevano tra una sigaretta e l’altra, senza mai alzare la voce, ma ognuno fermo sulle proprie posizioni. Sembrava di assistere a uno sfibrante duello già visto in qualche film western. “La pistola sepolta” o “Mezzogiorno di fuoco”.
Era mattina, sul presto, e noi dovevamo andare a scuola ma non potevamo andarcene senza sapere come sarebbe andata a finire. Per fortuna, giunsero Lina ed Enrica e li costrinsero ad accettare le reciproche scuse. I due uomini finalmente si strinsero la mano, poi il Genio guardò la moglie e le chiese: “La giacca è stirata?”. Accompagnando le proprie parole da uno sguardo eloquente, Enrica gli rispose in bergamasco: “Tel set che l’è stirada, fa mia ol bambo che te ghet quater scecc”.
Si concluse così quell’assurda vicenda che ancora oggi considero il più bel litigio a cui abbia mai assistito. L’orgoglio ferito e la ragione a tutti i costi, ma alla fine prevalsero il buon senso e la stima reciproca.
Da quell’episodio sono trascorsi almeno cinquant’anni e oggi nostro padre e il Genio non ci sono più. Sono sepolti a pochi metri di distanza, chissà se nel frattempo mio padre avrà imparato il bergamasco e se il Genio avrà ancora la sua giacca ben stirata?
Robi
Quell’Italia Mundial con Stefano Caglioni
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5 luglio 1982, stadio Sarrià di Barcellona. Sono le ore 17 e 15 e sta per iniziare la partita delle partite: Italia Brasile. Chi vince va in semifinale al Mondiale.
Sono passati più di quarant’anni ma io ricordo ancora le formazioni a memoria. L’Italia schierava Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati - sostituito alla mezzora dal diciottenne Bergomi, lo “zio”, per i baffi da uomo maturo che esibiva con orgoglio - poi Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Sì, c’era anche Ciccio Graziani. Gianni Brera lo definì “ingobbito di generosa broccaggine” ma pure lui, quel pomeriggio, fece la sua parte.
L’avversario era un Brasile davvero imbattibile. Una squadra ricca di talento e forza fisica, genio e sostanza. In realtà aveva due punti deboli, il portiere e il centravanti, ma la formazione faceva davvero paura: Valdir Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho, Socrates, Falcao, Serginho, Zico, Eder.
L’israeliano Klein portò il fischietto alle labbra e la voce inconfondibile di Nando Martellini annunciò l’inizio della partita. E io ero lì, davanti alla tivù del ristorante con i battiti accelerati e la sudorazione delle mani in aumento. Per scaramanzia indossavo la maglietta del Brasile, un regalo di mio padre per il mio diciassettesimo compleanno. Ammiravo quella squadra, ne ero letteralmente stregato, ma quel pomeriggio il mio cuore era completamente azzurro.
Se socchiudo gli occhi rivedo tutto: la maglia di Zico strappata dalle unghie belluine di Gentile, le movenze indolenti di Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio conosciuto come Socrates, e le perfette geometrie disegnate da Falcao, l’ottavo re di Roma. Ma ricordo altrettanto bene i dribbling vertiginosi di Bruno Conti, il ghigno sardonico di Cabrini, il bell’Antonio, e la parata all’ultimo minuto di Zoff.
Sappiamo tutti come andò a finire. Il nostro piccolo grande centravanti segnò tre gol a quel Brasile inarrivabile. Il volto scavato dalla tensione e dalla fatica, Paolo Rossi da quel giorno diventò Pablito, l’italiano più famoso al mondo al pari di Leonardo e Michelangelo.
Poi iniziò la festa, ovunque, in ogni strada o piazza, casa o locale. Anche in Città Alta. Un momento di esaltazione collettiva alla quale si unirono tutti, anche Stefano Caglioni che abitava vicino al Palazzo della Ragione. Aveva fatto il Sarpi e si era laureato in lettere ma per vocazione era un pittore. Sempre con la chitarra in mano e i suoi quadri sottobraccio, era normale incontrarlo in Piazza Vecchia o in giro per Città Alta e spesso ci veniva a trovare.
Quella sera, appena terminata la partita, Stefano si precipitò nel Ristorante urlando a squarciagola “Rossi! Rossi! Rossi!”, esibendo tutta la sua erre moscia. Per l’occasione indossava la maglia azzurra numero 20 di Paolo Rossi, il suo sorriso e lo sguardo stralunato irradiavano felicità pura. Placata l’euforia si sedette al tavolo con me e ordinò una porzione abbondante di calamari fritti, il suo piatto preferito.
Io con la maglia verdeoro della Seleção, lui con la maglia della nostra Nazionale, parlammo tutta la sera di calcio. Non l’avrei detto ma era un vero esperto. Squadre e giocatori, tattiche e allenatori, la conversazione non calava di intensità. Tra un suo ricordo di Ezio Gol, l’atalantino Bertuzzo, e un mio immancabile elogio alla classe sopraffina di Gianni Rivera ebbi modo di fissarlo lungamente negli occhi. Pensavo a quel suo viaggio in India all’inizio degli anni Settanta e a come sarebbe stata la sua esistenza se non ci fosse andato. Avrebbe fatto una vita “normale” come la maggior parte di noi? Forse avrebbe continuato a insegnare lettere in qualche scuola media o liceo della città. Di sicuro non sarebbe stato più felice.
Robi