Almeno a pingpong dobbiamo batterli

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Nell’autunno del 1944, la Guerra vide il suo apice di crudeltà e violenza. Il sonno della ragione genera mostri e in Italia dilagò una lotta fratricida in cui la pietà non era contemplata.

Papà aveva 19 anni e, messa da parte la sua innata spensieratezza, raggiunse suo fratello Enzo, partigiano in prima linea, per nascondersi tra i dolci declivi che dall’alto scrutano Bellagio.

Una sera infausta venne fermato da una squadra di repubblichini e finì in carcere. Papà rischiò di essere fucilato, quando all’ultimo istante giunse la testimonianza di uno sconosciuto. Costui giurò che mio padre fosse in sua compagnia al comando militare di Como, entrambi avevano deciso di arruolarsi ma da lì dovettero scappare per le bombe scagliate dagli americani.

Con quell’uomo che gli aveva appena salvato la vita, papà salì su un treno diretto in Piemonte, pronto a entrare suo malgrado nella X MAS. La “Decima Flottiglia” era nata come corpo scelto della Regia Marina e fino al termine della Guerra si sarebbe schierata al fianco del Terzo Reich. Mimmo era atteso da un breve addestramento nelle Langhe, poi sarebbe partito per il fronte, ma era chiaro che avrebbe fatto di tutto per evitare di indossare quell’uniforme grigioverde.

Su quel convoglio che procedeva lento attraverso i campi ormai brulli, i futuri combattenti erano sorvegliati a vista dai militari tedeschi con il mitragliatore puntato su di loro.

In quel silenzio che rendeva l’aria densa e immobile qualcuno si mise a cantare. Un motivo popolare imbevuto di nostalgia che parlava della propria terra lasciata con dolore tanto tempo fa. Per molti di quei ragazzi che affollavano il vagone si trattava di un dialetto sconosciuto, ma seguirono quel canto improvvisando una sorta di coro. I crucchi si innervosirono, iniziarono a inveire, a gesti promettevano di sparare a chi si fosse permesso di cantare ancora.

Al di là delle notizie filtrate ad arte dalla propaganda, lo si percepiva nell’aria: la guerra non sarebbe durata ancora per molto. Tra fascisti e nazisti cominciava a insinuarsi l’idea che da lì a poco sarebbe cambiato tutto, forse i carnefici di oggi sarebbero diventati le vittime di domani. Mio padre avvertiva la loro paura, ma poi perché uccidere quegli uomini sacrificabili alla causa per poche note stonate cantate in coro?

Il treno si fermò nel nulla della campagna sabauda per concedere a tutti di espletare i propri bisogni fisiologici. Fu in quel preciso istante che il più coraggioso o pazzo cominciò a correre e a scappare nei campi che fiancheggiavano la ferrovia. I militari intimarono l’alt ma quel ragazzo non aveva nessuna intenzione di fermarsi, aveva deciso che tra la morte in guerra o in un prato non sarebbe cambiato molto. O forse pensò che in quella splendida giornata di sole non si potesse morire.

I tedeschi non spararono, e allora un altro ragazzo fuggì e poi un altro e un altro ancora. Scapparono tutti, anche papà.

Le sofferenze e gli oltraggi subiti in quei giorni nefasti non mutarono il carattere gioioso di mio padre e non scalfirono la sua immensa fiducia nell’essere umano. Tant’è vero che, molti anni dopo, quando ci raccontava di quella vicenda così drammatica, lo faceva con un misto di ironia e leggerezza: i tedeschi erano avversari risoluti e determinati ma si potevano battere. Come era successo all’Estadio Azteca di Città del Messico, ai Mondiali del 1970, quando l’Italia sconfisse la Germania per 4 a 3.

Una sfida epica, forse la partita più bella ed emozionante del XX secolo. In fondo erano trascorsi solo 25 anni dalla fine della Guerra e quella vittoria contro “l’invasore”, anche se sul prato verde di un campo di calcio, per gli italiani aveva un sapore tutto speciale. “Almeno a calcio dobbiamo batterli” fu la sentenza di Mimmo.

In quegli indimenticabili anni 70, ad agosto la famiglia Amaddeo si trasferiva per una settimana a Cervia, sulle acque placide e generose dell’Adriatico. Lì di tedeschi ce n’erano tantissimi e io, che facevo amicizia con chiunque, passavo gran parte del mio tempo con Hans, Jürgen o Franz.

Al calar del sole, ci si cimentava in interminabili sfide a pingpong e mio padre, quando mi vedeva giocare con ragazzi dalla chioma inconfondibilmente bionda, mi intimava di non tornare sconfitto. “Almeno a pingpong dobbiamo batterli”.

Ricordo pure un Ferragosto particolarmente caldo e afoso della mia infanzia, in cui il ristorante, anche il giardino esterno, non aveva un solo tavolo libero. Tranne uno che, non essendo protetto da alcun ombrellone, se ne stava lì, addossato al muro, vittima delle vampe cocenti del solleone.

Erano quasi le due e la maggior parte della clientela era dedita alle chiacchiere e all’ammazza caffè, quando si presentò una coppia sorridente di tedeschi, rubicondi e ben pasciuti. Con la prontezza del miglior Totò, papà gli propose quel tavolo disgraziato. “Lo volete un bel posto al sole? Eccolo lì!”. “Ja, ja” risposero entusiasti.

Tra il bis di lasagne al forno e una birra via l’altra, i due godettero di indimenticabili momenti italici rischiando l’insolazione. Più mangiavano e più cuocevano soddisfatti, mentre mio padre rideva sotto i baffi: “Almeno a tavola dobbiamo batterli”.

Alla fine, vinse il buon cuore, e papà trovò loro un ombrellone sotto il quale ripararsi. La coppia apprezzò molto la cortesia, proseguendo a rimpinzarsi con più fervore di prima.

Fino all’ultimo dei suoi giorni, il rapporto tra Mimmo e i tedeschi fu assai complicato. In guerra lo avevano arrestato, picchiato e volevano spedirlo al fronte con una divisa che mai e poi mai avrebbe indossato. Era un sopravvissuto e lo sapeva, eppure non li odiava, era troppo impegnato ad amare la vita.

Prenderli in giro era la vendetta più spietata che la sua mente potesse concepire. Però bisognava batterli, assolutamente, a tavola e a pallone, e ovviamente a pingpong.