Volevo essere uno dei Mille

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Le famiglie dei ristoratori vanno al cinema al pomeriggio e alle vacanze ci pensano quando tutti gli altri sono tornati. Si sposano nel giorno di chiusura e festeggiano il Carnevale mentre la Quaresima è ormai alle porte. Una vita in controcanto, dove una melodia secondaria – la tua – si incrocia e sottostà a quella principale.

Era nell’ordine delle cose, quindi, che Mimmo e Lina fossero dediti anima e corpo al ristorante e avessero poco tempo da dedicare ai propri figli. Tutti e sette, dal più piccolo al più grande, dovevamo cavarcela da soli un po’ in tutto, anche nel divertimento. Come a Carnevale, che in Città Alta era una grande festa popolare, gioiosa e colorata.

Per tutti noi bambini l’attesa era febbrile. Quell’anno, poi, avevo le idee particolarmente chiare: volevo essere uno dei Mille. Mi serviva una camicia rossa identica a quella dei garibaldini e lo dissi a papà.

Questo mio desiderio di vestire la giubba degli eroi che avevano unito l’Italia originava dalle parole pronunciate da mio padre per convincermi a fare gli esami del sangue.

Da piccolo mangiavo davvero poco. Mia madre e il medico di famiglia dicevano che ero solamente iperattivo e mal sopportavo di stare seduto a tavola, ma papà non ne era convinto e mi portò in ospedale.

L’idea di farmi bucare le braccia non mi sorrideva affatto, così mi disse che se avessi superato questa prova sarei diventato di diritto uno dei valorosi guidati da Giuseppe Garibaldi. Il “biondo nizzardo”, come lo chiamava la mia entusiasta maestra delle elementari.

Ormai mancavano pochi giorni al Martedì Grasso e, dopo aver affrontato con coraggio il perfido ago della siringa, chiesi a papà di certificare la mia appartenenza alle truppe garibaldine procurandomi la loro divisa rossa con la fascia blu a cingere i fianchi.

Che fosse Carnevale o San Valentino papà era sempre di corsa. Comande e menù, cuochi e camerieri, la mia uniforme carnascialesca era certamente l’ultimo dei suoi pensieri.

Prima di essere travolto dall’ansia, ripiegai strategicamente su mia madre, una donna per la quale era inconcepibile non mantenere una promessa. Con fermezza mamma ricordò a papà l’impegno solenne che aveva preso con me.

Il Carnevale presto se ne sarebbe andato con tutti i suoi coriandoli, maschere e stelle filanti, ma nel tardo pomeriggio di lunedì giunse trafelato un amico di famiglia con un pacco proprio per me. Le mani sudate e i battiti del cuore accelerati, lo aprii all’istante.

Mentre stracciavo la carta che avvolgeva il mio prezioso vestito mi immaginavo già in tenuta rosso sangue. Mi ritrovai in mano un capo d’abbigliamento che somigliava più a una pesante camicia di flanella che a una giubba militare. Sì, era rossa e aveva i bottoni dorati come la divisa dei garibaldini, ma sarei stato più un uscere d’albergo che un difensore della libertà.

In aggiunta vi era un berrettone di lana spessa e ruvida. Con quello in testa sarebbe stata la fine. Altro che un eroe pronto a dare la vita per i suoi ideali, sarei stato additato come un improbabile Pulcinella in rosso o, ad andar bene, quel fannullone di Peppe Nappa, la maschera siciliana.

Ero a un passo dalla disperazione e timidamente chiesi lumi a mio padre. Puntando sulle sue doti di abile improvvisatore, Mimmo provò a convincermi che quella fosse la divisa invernale di Nino Bixio, il generale fedelissimo all’eroe dei due mondi di cui mi ricordò la celeberrima frase: “O a Palermo o all’inferno”.

Non me la raccontava giusta. Quando all’improvviso sopraggiunse il Genio, il nostro cameriere più abile ed esperto, all’occorrenza braccio destro di papà. Stava lavorando in sala e aveva sentito tutto. Arrivò con un gran sorriso esclamando: “Che bella! Ma questa è la divisa delle guardie della Regina d’Inghilterra!”.

Forse era vero, ma nell’aria si percepiva l’odore inconfondibile dell’inganno. Ero deluso ma non c’era più tempo, dovevo cambiare strategia e rinunciare al desiderio di rappresentare uno dei mille valorosi che aveva cambiato la storia del nostro Paese.

La mattina dopo andai a scuola con la mia camicia rossa e l’ingombrante berrettone sul capo. In classe mi ritrovai tra Arlecchino, Brighella e Colombina, ma anche gnomi, diavoli e fatine. Nessuno era in grado di capire come mi fossi mascherato. Così, sotto gli sguardi dubbiosi dei miei compagni, dovetti spiegarlo, riuscendo a convincere solo i più ingenui.

È vero, ero un bambino, ma mi restò appiccicata sulla pelle la sgradevole sensazione di aver tradito la mia indole anticonformista e di aver perso l’occasione di incarnare, anche solo per un giorno, un vero rivoluzionario. Mi consolai pensando che l’anno dopo avrei lasciato a Mauro o a Massimo il compito di rappresentare le guardie di Buckingham Palace. Perché a casa Amaddeo i vestiti, anche quelli di Carnevale, passavano di fratello in fratello. Io invece mi sarei mascherato da Zorro, un difensore dei deboli e degli oppressi certamente più facile da riconoscere di un anonimo pur valoroso garibaldino.

Comunque, avevano ragione il dottore e la mamma. Gli esami dissero che ero sano come un pesce. Dovevo solo aspettare un anno esatto e mi sarei vestito tutto di nero, con maschera e cappello a tesa larga, pronto a fare una bella zeta sulla pancia del sergente Garcia.