Tutta ‘nata storia

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Tranne una ristretta cerchia di illuminati – i quali a sei anni sanno già cosa fare da grandi, di solito il medico o l’avvocato – terminato il liceo la maggior parte di noi sprofondava nel dubbio e nell’indecisione. Ottenuta più o meno brillantemente la maturità, non avevo alcuna idea su quale strada intraprendere.

Proseguire negli studi o aiutare mio padre nella gestione del ristorante? In attesa dell’ispirazione divina mi ero iscritto senza troppa convinzione alla facoltà di lingue, probabilmente perché le aule dell’Università erano a due passi da casa. Dovevo far qualcosa per interrompere quel circolo più apatico che vizioso, così decisi di togliermi di mezzo l’anno di militare.

Il giorno in cui giunse l’inevitabile cartolina, ero seduto a tavola meditando sulla sconcertante prestazione del Milan, alla prima di campionato, sconfitto in casa da un Ascoli schierato con un inguardabile 8-1-1, grazie a un gol di Massimo Barbuti. “Grazie”, ovviamente, si fa per dire. L’era Berlusconi, il nuovo presidente, iniziava nel peggiore dei modi. A interrompere quel flusso incontrollabile di pensieri negativi ci pensò mia madre porgendomi la “convocazione” con un laconico: “Vai a Salerno”.

Non ero affatto turbato da quell’evento che ad altri procurava ansia e batticuore. Tutt’altro. Mi piaceva l’idea di starmene dodici mesi lontano da casa, in un luogo che immaginavo caldo ed esotico, da vivere così, con il sole in fronte e il vento in faccia. E poi lì c’era il mare, e dietro l’angolo la costiera amalfitana.

Settembre se ne andò in un attimo e ottobre decise di emularlo. La partenza, ormai, era imminente e mia mamma, con le sue abili mani, mi confezionò una sorta di borsetta di cotone da appendere al collo. La avrei occultata ad arte sotto i vestiti per non farmi rubare soldi e documenti.

Gli occhi di mia madre mal celavano un velo di tristezza mentre mio padre, al contrario, viveva un momento di pura esaltazione. Ero il primo figlio che andava sotto le armi e ogni sua conversazione svoltava invariabilmente verso reggimenti e battaglioni. Lo appassionava tutto ciò che riguardava la vita militare. Come partigiano si era ritrovato faccia a faccia con la morte e quello era il suo modo di esorcizzare la guerra. Voleva trarne qualcosa di buono, come se quegli anni terribili rappresentassero solo una sfortunata coincidenza tra la sua giovane età e il corso della storia, un’eventualità come un’altra.

Quella sera, era il 5 novembre 1986, fu proprio mio padre ad accompagnarmi alla stazione di Milano. Anche in auto papà non interruppe la sua narrazione epica. Dalla Seconda guerra mondiale era passato alla Prima e ora mi raccontava di Caporetto e Verdun. Temevo che andando a ritroso sarebbe giunto alle guerre Puniche. Ma non lo ascoltavo più, ormai i miei pensieri erano altrove. Avrei lasciato affetti e amici per un anno intero, lo stavo realizzando solo in quel momento.

Arrivati a Milano papà si fermò davanti allo scalone che porta all’ingresso della Stazione Centrale commentando a mezza voce: “Come mi sembrava grande questa scala la prima volta in cui sono sceso da quei gradini, quarant’anni fa”. Quello scalone era lungo quanto gli anni che erano passati, con tutto quello che era successo, a lui, a me, a noi.

Mio padre diede un’occhiata al suo orologio al quarzo nuovo di zecca e io al mio, a carica manuale, un vecchio regalo di mio nonno da cui non volevo separarmi. Era il momento dei saluti.

Sul treno misi subito le cuffie del mio walkman per ascoltare De Gregori. “A quel tempo ero un ragazzo” cantava Francesco in Bufalo Bill.

Quella sera, mentre il treno sferragliava verso Sud, la Juventus affrontava il Real Madrid in Coppa dei Campioni. Erano gli ottavi. Butragueño all’andata, Cabrini al ritorno, si andò ai calci di rigore e i bianconeri furono eliminati. Aveva ragione papà, all’estero vinceva solo il Milan.

Arrivai a destinazione di primo mattino e mi presentai subito alla caserma Cascino di Salerno. Consegnata la cartolina e i documenti all’ufficiale di picchetto, notai una scritta sul muro: “Non chiedo dove”. Era il motto di quella caserma ed esprimeva molto bene il mio senso di smarrimento: andare avanti senza chiedersi in quale direzione.

Per una settimana la tiritera fu: “Da dove vieni?”. “Da Bergamo”. “Ah sì, e dove si trova?”. “Vicino Milano”. “Ah”. “E tu?”

Non ci misi molto nell’adeguarmi a quei ritmi scanditi da sveglie ad alto volume, marce e canti goliardici più che mai da caserma. E compresi immediatamente che non ci sarebbe stato nulla di romantico o di avventuroso nell’essere in quel posto.

Rimbalzati tra vestizioni, guardie e orari da rispettare, si viveva in una camerata immensa e rumorosa, con quegli armadietti sgangherati dove riporre le foto della fidanzata o della squadra del cuore. Quella campata accoglieva le facce di tutta Italia. Tutti uguali, tutti nessuno.

La sera si usciva con le tasche gonfie di gettoni per mettersi in fila alle rare cabine telefoniche. Qualcuno a vent’anni era già sposato, altri stavano ultimando l’università e sembravano molto più vecchi. C’era anche chi non trovava molta differenza tra la vita anonima condotta in precedenza e quella altrettanto anonima del militare.

Un battito di ciglia e chi li ha visti quei dodici mesi trascorsi sotto quel cielo terso spazzato da un vento secco e caldo. Un anno vissuto poco pericolosamente che mi ha lasciato in dono le canzoni di Pino Daniele e l’arguzia di Massimo Troisi, il loro essere orgogliosamente napoletani, capaci di liberare il dialetto dal folclore tipico partenopeo. L’uno cantore di un nuovo mito di Partenope, capace di guardare alla musica d’oltreoceano, l’altro emblema di una generazione di napoletani che non erano più solo emigranti.

E anche quel “Non sapete cosa vi siete persi” scritto da una mano anonima sul muro di cinta del cimitero di Napoli il giorno dopo la vittoria del primo scudetto. Le magie di Diego Armando Maradona. Mai un campione era entrato a quel modo nel cuore della gente. Tutto era diventato “Maradona”: dalla pizza ai fuochi d’artificio.

Fu un’esperienza intensa e formativa anche se, lo ammetto, il giorno in cui partii da Milano mi immaginavo davvero “Tutta ‘nata storia”, per dirla come il bardo partenopeo. Invece, zero brividi e nessun azzardo. Anzi, nel suo tranquillo e monotono incedere del tempo, senza rendermene conto avevo seguito a ritroso la vita di mio padre. Lui era partito da Sud a Nord per una guerra di cui non sapeva nulla. E adesso io, in senso contrario, da Nord a Sud, con al polso il vecchio orologio di mio nonno e nella mente i mille quesiti da risolvere sul mio futuro.

Quella borsetta di cotone fatta da mia madre ce l’ho ancora. Non la uso più per metterci i soldi ma ogni tanto mi piace ripescarla dal cassetto e tenerla con me. La apro e la chiudo un po’ di volte per verificare che la cerniera funzioni ancora. E penso un po’ a lei e alle sue splendide mani.