Settembre: tempo di passata

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Ogni mese ha in sé qualcosa di speciale che lo rende unico. Francesco Guccini ci racconta come i mesi dell’anno siano tutti indispensabili, tanto da scriverci una bellissima canzone, ma io amo settembre e mi sento più vicino alle “impressioni” della PFM o ad Alberto Fortis.

“Quante gocce di rugiada intorno a me, cerco il sole ma non c’è”. Lo scrisse Mogol per Mussida e i suoi sodali mentre Alberto da Domodossola ci cantava “Ahi settembre mi dirai, quanti amori porterai”.

Mi piace quando l’estate attenua il suo impeto e ci bisbiglia con voce sottile che presto arriverà l’autunno. Quando ero bambino, poi, la scuola cominciava il primo ottobre e i trenta giorni di questo mese incantevole che abbraccia i segni della Vergine e della Bilancia trascorrevano veloci nell’illusione che le lezioni e i compiti non sarebbero arrivati mai.

Settembre è anche il mese in cui il pomodoro si trasforma in conserva. A luglio e ad agosto il sole si è prodigato nel dare il meglio di sé, ora bisogna preparare la salsa che dovrà durare tutto l’inverno, soprattutto se hai un ristorante che sforna decine di pizze al giorno.

Ed ecco che il secondo martedì di settembre, nel giorno di chiusura del ristorante, tutti noi, bambini compresi, eravamo precettati nella “grande festa del pomodoro”.

Per quel giorno, mio padre faceva arrivare un intero camion di pomodori San Marzano, a cui faceva aggiungere un bel po’ di cuori di bue. Con i primi facevamo la salsa mentre i secondi servivano per preparare le grandi insalate che avremmo consumato a pranzo prima della spaghettata di rito.

Il rigoroso cerimoniale prevedeva che venissero portati in cucina tre enormi pentoloni da caserma, così grandi che noi bambini usavamo delle cassette di legno su cui arrampicarci per mescolare la salsa.

Mia madre dirigeva la manovalanza stando attenta che ai più piccoli fossero date mansioni alla loro portata. Mio padre e le mie sorelle, invece, lavavano i pomodori, li tagliavano per poi rovesciarli nei pentoloni. L’olio doveva essere caldo al punto giusto per dorare la cipolla senza friggerla, altrimenti la salsa sarebbe diventata amara e, solo alla fine, si aggiungeva il basilico per donare il suo profumo tutto l’anno.

Papà guidava con piglio autoritario le maestranze recitando ad alta voce il suo mantra preferito: “ingrediente cuoce ingrediente”. Perché la cottura ha i suoi ritmi e, in cucina, anche il tempo diviene un vero e proprio ingrediente.

Quel giorno si ascoltava la radio e le canzoni trasmesse diventavano la colonna sonora dell’evento. Ricordo quella volta in cui le mie sorelle si esibirono in coro martoriando “Ancora tu” di Lucio Battisti, ma ancor di più rivedo mia mamma cantare “Dammi solo un minuto” dei Pooh. Tranne quando stirava, ma quello era più un mormorio rivestito di note, prima di allora non avevo mai sentito la sua voce liberarsi pienamente.

“Dammi solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora”. Fu una sorpresa così grande che rimasi senza parole per un buon dieci minuti e, ancora oggi, quell’immagine di lei mi intenerisce e mi emoziona.

La liturgia prevedeva infine l’imbottigliamento. Per questa delicata operazione, da un birrificio locale mio padre acquistava bottiglie dal vetro scuro e spesso che avrebbero protetto per mesi il risultato della nostra fatica.

La “grande festa del pomodoro” volgeva al suo atto conclusivo e più atteso: una sontuosa spaghettata tale da far impallidire quella resa celebre da Totò in “Miseria e Nobiltà”. Un momento da vivere tutti insieme, seduti a lunghe tavolate allestite con tovaglie di carta, perché il pomodoro macchia e la lavanderia costa.

Quel giorno gli spaghetti al pomodoro li preparava papà seguendo una ricetta tutta sua. Cuoceva i pomodori a bassa temperatura – come diremmo oggi – e li disponeva su un tagliere, li incideva appena per aprirli con le mani così da farne uscire l’acqua e i semi. Poi li poneva per un’ora nel forno a legna spento ma ancora caldo della sera prima. Infine, aggiungeva qualche foglia di basilico e frullava i pomodori ormai cotti. Scolava quindi la pasta, la metteva in padella con il pomodoro e mescolava il tutto con energica sapienza.

Il verde del basilico fresco, il bianco della pasta, il rosso della salsa: quanta Italia in quel semplice piatto.

Forse è un ricordo falsato dalla nostalgia, ma io di spaghetti al pomodoro così buoni non ne ho più mangiati. Oppure è la memoria dei profumi che lego a quei martedì di settembre della mia infanzia a procurarmi in questo momento, mentre scrivo, un’intensa e irreprimibile salivazione.

Papà ci diceva che gli spaghetti al pomodoro rappresentano la prova del nove per ogni cuoco. In quei momenti di gioia compresi come per le cose buone e semplici non basta il minuto tanto implorato dai Pooh. Servono tempo e dedizione, amore per le cose fatte bene e una dose robusta di buonumore.