Sarà…
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È il nome del tuo ristorante e in poche lettere ha il compito di raccontare la tua storia. Da dove vieni e dove vuoi andare. Insomma, deve dire chi sei.
Oggi i locali hanno anche nomi fantasiosi – Quintessenza o Contaminazioni, Il Pagliaccio o Il Povero Diavolo – mentre una volta era spontaneo chiamarli con il nome del proprietario. Era un modo molto semplice e diretto per presentarsi.
I primi ristoranti italiani nacquero negli anni Cinquanta proponendo agli avventori i piatti di famiglia. Il più delle volte erano ricette tramandate dalla nonna, o apprese da una zia particolarmente abile in cucina, preparate da chi in casa se la cavava meglio ai fornelli.
Varcare la soglia di una trattoria o di un’osteria significava entrare in casa del ristoratore. Ecco perché l’insegna il più delle volte recitava: Da Mario, Da Cecchino o Da Mimmo, appunto. Stava a dire: “vieni da me, sulla bontà del cibo garantisco io”.
Anche Da Mimmo ha sempre avuto la sua bella insegna sopra la porta d’entrata, grande e ben visibile. Papà ci teneva moltissimo, ma si sa come sono i figli, amano cambiare e vogliono fare di testa la loro. Magari rompendo con il passato, almeno un po’.
Fu così che nel 2016, quando decidemmo di ristrutturare il ristorante, ebbi l’intuizione di togliere l’insegna sopra il portale d’ingresso. Non era certo per fare un dispetto a papà, ero convinto che un palazzo storico come quello che ci ospitava – la Casazza – meritasse di essere ammirato in tutta la sua fiera e antica bellezza, mostrando senza orpelli l’austera eleganza della pietra di Sarnico con cui era stato edificato.
“Il palazzo più fastoso della città”. Era questa la descrizione utilizzata nel tardo Medioevo per descrivere la Casazza. Così decisi che sarebbero state sufficienti delle piccole scritte ai lati della porta d’entrata per indicare il nome del ristorante.
Studiammo il progetto nei minimi dettagli. Rimuovendo la vecchia insegna sarebbero comparsi sei fori nella facciata e lì avremmo inserito altrettante sculture realizzate apposta per noi da un artista bergamasco di fama internazionale: Giancarlo Defendi. Sei maschere di ferro e bronzo che si fondono nella pietra con naturalezza, visibili solo a un occhio attento. Il sole e la luna, l’acqua e il fuoco, il vento e la terra, elementi fondamentali della vita e del ciclo alimentare, quindi del nostro mondo: la ristorazione.
E venne il giorno. Quel giorno. Padre e figlio, mai così vicini, con la schiena a sfiorare il muro del palazzo di fronte alla Casazza, guardavamo l’operaio staccare l’insegna con insospettabile cura.
Reggendosi sul bastone che ormai lo accompagnava da qualche anno, papà fissava per l’ultima volta i grandi caratteri in stampatello che componevano il suo nome. Lui non disse nulla, io nemmeno. Fu un silenzio prolungato e assordante, poi mi chiese: “Sei sicuro?”.
No, non lo ero affatto. Non lo ero più, ma come facevo a dirglielo? Fu allora che abbozzai un discorso con l’intento di giustificare la mia scelta ma soprattutto convincere me stesso: “Questo palazzo risale ai primi anni del Trecento. È stato un casa nobiliare con Baldino Suardi che, dopo averlo acquistato, lo rese dimora del proprio casato. Divenne poi sede del servizio postale della Serenissima e nei secoli successivi Casa Scotti, nelle cui stanze ospitò carbonari e futuri patrioti. L’ha frequentata anche Gaetano Donizetti quando non era altro che un bambino indigente di Città Alta. Arrivò il Novecento e si trasformò in un’osteria, fino al 1956, quando ci sei entrato tu ed è diventato ciò che è oggi. Che senso ha affibbiargli un nome? Lasciamo che la pietra si presenti per ciò che è: nuda e cruda.”
Non so se comprese le mie ragioni, non so nemmeno se mi ascoltò veramente. Fatto sta che mi guardò come un padre guarda il quinto dei suoi sette figli e, dopo aver emesso un profondo sospiro, chiuse la questione con un emblematico: “Sarà…”.
Era il massimo della fiducia che potesse concedermi in quel momento. Quel cambio di insegna per me rappresentò un vero e proprio passaggio di consegne. Ero emozionato, fiducioso nel futuro, ma sentii tutto il peso e la responsabilità di quella scelta.
Oggi mi ritrovo a pensare che il tempo passa, così come passano le insegne. Restano invece tutte le storie di vita che si sono avvicendate Da Mimmo dal giorno della sua apertura. Giusto papà?