Prima finisco il ragù

Tempo di lettura: 3 minuti e mezzo

Il 1965 fu un anno ricco di avvenimenti. Mentre Vittorio De Sica vinceva l’Oscar per il miglior film straniero grazie a “Ieri, oggi, domani” e all’indimenticabile spogliarello di Sophia Loren, al Milan arrivarono Sormani, Angelillo e l’arcigno difensore tedesco Karl-Heinz Schnellinger che indosserà per 334 volte la maglia rossonera.

In quell’anno accaddero altri fatti meno eclatanti ma pur sempre meritevoli di essere citati: il Canada cambiò la propria bandiera, scegliendo come simbolo la foglia d’acero, e poi sono nato io. Alle ore 5.30 di lunedì 3 maggio – lo stesso giorno in cui vennero al mondo Niccolò Machiavelli e Massimo Ranieri – Diego Roberto Amaddeo, quinto di sette figli, emise il suo primo vagito.

Nel 1965, poi, non si era ancora attenuata l’onda emotiva generata dalla morte di Papa Giovanni XXIII avvenuta nel giugno di due anni prima. Erano moltissimi i gruppi di fedeli che arrivavano a Bergamo per visitare i luoghi dove Angelo Roncalli, il Papa Buono, aveva trascorso parte della propria esistenza.

Fu così che Bergamo scoprì i vantaggi del turismo religioso e Città Alta divenne una delle mete più frequentate dalle comitive di credenti e pellegrini giunti fin qui per celebrare il ricordo inestinguibile del pontefice nato a Sotto il Monte, amatissimo in tutto il mondo.

Era di maggio, come cantava Roberto Murolo, precisamente la sera del 2 maggio 1965. L’attenzione di mia madre era rivolta completamente alla preparazione del ragù con il quale avrebbe condito le lasagne necessarie a sfamare il gruppo di devoti in arrivo Da Mimmo il giorno seguente.

Il cucchiaio di legno carezzava la carne tritata intenta a soffriggere nella grande padella d’alluminio mentre nell’aria lo sfrigolio dell’olio rivaleggiava con il vociare continuo di cuochi e camerieri.

Fu questione di un istante e mia mamma riconobbe un dolore già provato altre volte, esattamente quattro, quello dalle doglie. Mio padre giunse immediatamente richiamato dal personale di cucina. La fece accomodare su una sedia e le disse di stare tranquilla, sarebbero andati subito all’ospedale. Con tutta la calma del mondo, mia madre rispose: “Prima finisco il ragù”.

Papà non volle sentire ragioni, adesso andava a prendere la Giardinetta parcheggiata sul retro. Io non c’ero, ovviamente, e debbo fidarmi delle testimonianze di chi invece era presente alla scena: mamma guardò papà dritto negli occhi e con uno sguardo che non ammetteva repliche ribadì: “Ho detto che prima finisco il ragù”. E così avvenne.

Per tutti noi figli di ristoratori, questi episodi rappresentavano il quotidiano: il lavoro e la famiglia erano, e lo sono anche oggi, assolutamente inscindibili. Quello di mia mamma non fu né un atto eroico né scellerato. Era il senso di responsabilità, insito in quella generazione, nel mantenere gli impegni presi. Per mia madre e per tante altre donne dell’epoca quella era la normalità: prima il dovere e poi il dovere.

Ma tornando al suo ragù, come ci svela Eduardo in “Sabato, domenica e lunedì”, il trucco sta nella cipolla. “Più ce ne metti più aromatico e sostanzioso viene il sugo. Tutto il segreto sta nel farla soffriggere a fuoco lento. Quando soffrigge lentamente, la cipolla si consuma fino a creare intorno al pezzo di carne una specie di crosta nera. Via via che ci si versa sopra il vino bianco, la crosta si scioglie e si ottiene quella sostanza dorata e caramellosa che si amalgama con la conserva di pomodoro e si ottiene quella salsa densa e compatta che diventa di un colore palissandro scuro quando il vero ragù è riuscito alla perfezione”.

Ecco perché, citando sempre De Filippo: “’O rraù ca me piace a me, m’ ‘o ffaceva sulo mammà.”

Crescendo e maturando ho cercato una chiave di lettura, anche ironica, per interpretare questo episodio. Con la saggezza che qualche volta accompagna l’imbiancare dei capelli penso di averla trovata: nella vita esistono delle priorità e io vengo dopo il ragù. In fondo, però, non mi è andata così male. Come direbbe Massimo Troisi, se non puoi essere il primo cerca almeno di essere il secondo.

Robi