Ma tutta questa gente…

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Da una parte c’erano le logiche commerciali e di marketing, anche se primitive, e dall’altra c’era mia madre. Due mondi così lontani e incompatibili non riesco a immaginarli.

Quando lavorava, mamma non conosceva sosta o distrazione, il suo impegno e la sua dedizione erano assoluti. In ogni suo pensiero o azione non vi era mai il fine della promozione o della vendita, per quello bastava e avanzava mio padre che ogni giorno si inventava qualcosa di nuovo.

Mamma poteva sembrare introversa e forse un po’ timida, ma era solo riservata. Era convinta che si parlasse troppo, che le parole fossero sempre in eccesso, così le poche volte in cui si pronunciava era inevitabile stare ad ascoltarla.

Ricordo come fosse ieri una serata invernale nei primi anni Settanta. Il nostro ristorante ormai era conosciuto e apprezzato dai bergamaschi, non solo di Città Alta. Mio padre era felice e appagato, finalmente poteva dire di avercela fatta e di tutto ciò ringraziava mia madre che, nei momenti difficili, con la propria presenza, solida e rassicurante, gli era stata di enorme sostegno.

Quella sera non vi era un solo tavolo libero. Nell’aria si percepiva quell’allegria senza eguali che distingue i giorni che precedono il Natale. La maggior parte dei clienti era ormai al dolce o al caffè e mio padre si voltò verso mia madre accompagnando lo sguardo a un ampio sorriso che esprimeva tutta la sua soddisfazione. Messa a disagio da quella esternazione e, per retaggio culturale, condizionata da quella forma di pudore che ti impedisce di gioire pienamente anche quando sei felice, mamma gli disse: “Ma tutta questa gente non ce l’ha una casa, una famiglia?”.

Papà restò di sasso. Lui era solito prendere molto sul serio le parole che mia madre centellinava come la più preziosa delle ambrosie. Scosse la testa e le disse: “Ma cosa dici? Noi siamo qui perché loro sono qui”.

Ascoltai quel dialogo che mi sembrò un poco surreale senza comprenderlo fino in fondo ma oggi, a distanza di anni, ne intravedo un significato che non riguarda solo me o la mia famiglia.

In Italia il boom economico era al suo apice. Ormai vi era un’auto per ogni nucleo familiare, che si era ridotto nel numero dei suoi componenti. I figli erano tre o quattro al massimo – tranne noi ristoratori, sia chiaro – e i nonni non era più obbligatoriamente al seguito. Si cominciava a uscire la sera anche durante la settimana, al cinema o al ristorante. C’era voglia di leggerezza.

Mia madre era impermeabile a questi cambiamenti che stavano rivoluzionando le abitudini degli italiani. Lei continuava a pensare all’essenziale: la casa, il lavoro, i figli. Niente di più e niente di meno, non aveva alcuna aspirazione a “stare meglio di prima”, perché mamma era a suo agio anche quando la vita era perennemente in salita.

Papà, all’opposto, era attratto da ogni novità, da tutto ciò che poteva migliorare la sua vita e quella degli altri. Era un uomo di relazione e nel suo ristorante amava incontrare la gente e conoscerla, ridere e piangere insieme a loro.

Per mia madre, invece, quel ristorante era solo una casa, forse più grande di un’abitazione normale ma pur sempre un luogo dove vivere sereni, senza cercare di più di quello che capitava.

Mamma manteneva inaccessibile il proprio spazio interiore. Il suo modo di fare, misurato e privo di cerimonie, andava di pari passo alla sua capacità di accontentarsi di quello che le arrivava dal cielo o da chissà dove, sapendo che nella vita tutto era passeggero e mutevole, tranne gli affetti e quelle quattro mura che fungevano da riparo alla sua famiglia.

La schiettezza che la identificava si manifestò in tutto il suo splendore in un pigro pomeriggio autunnale di fine anni Ottanta. Un notissimo cantante e musicista bergamasco che all’epoca abitava in Città Alta si presentò da Mimmo chiedendo di mia mamma. Recava con sé una cesta colma di porcini appena colti. Saltando i convenevoli la implorò di pulirli e cucinarli come sapeva fare lei. Mia madre lo guardò severa negli occhi e gli disse: “Ma lei non ce l’ha una moglie?”. Un po’ ruffiano ma con affetto lui rispose: “In realtà sono già alla terza, ma per queste cose io mi fido solo di lei”.

Mamma era così, diretta e senza filtri. La sua attenzione era rivolta solo a ciò che era strettamente necessario, anche sul bancone di marmo della cucina. Ogni mattina, le sue mani erano impegnate a preparare almeno due o tre teglie di parmigiana di melanzane. Gesti rituali e ripetuti, come preghiere mandate a memoria. Non era interessata a venderle quelle parmigiane, o a ricevere complimenti per la loro bontà, a lei bastava che finissero entro sera per poi ricominciare il giorno dopo.

“Ma tutta questa gente non ce l’ha una casa, una famiglia?”.

Mia madre era convinta che di fronte alle gratificazioni e alle delusioni della vita bisognasse restare se stessi e che per essere felici non fosse necessario rincorrere il successo commerciale. In tutto questo era aiutata da una fede profonda che le permetteva di accogliere con serenità ciò che veniva deciso lassù. Forse lo comprendo solo ora, grazie al suo credo e alla sua spontaneità mamma era una donna straordinariamente libera.