Lo chiameremo Mario

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Il suo nome lo ricordo perfettamente, una manciata di lettere a comporne uno assai comune. Ma in questa storia di colpa ed espiazione intrisa di umanità, il suo vero nome non è importante. Così lo chiameremo Mario.

Le mura livide e scrostate del carcere di Sant’Agata nei secoli si sono fuse a quelle della Casazza, il palazzo medievale che ospita il nostro ristorante, una volta sede del servizio postale della Serenissima. Eravamo vicini di casa e qualche volta papà si recava lì per portare gioia e ristoro alle guardie: una pizza appena sfornata, qualche arancino ancora fumante e – in rare occasioni – i cannoli da lui preparati con l’abilità di un autentico pasticcere siciliano.

Fu in una di quelle visite tanto apprezzate dai secondini che nostro padre conobbe Mario. Seduto compostamente al fianco di una guardia, era in attesa del suo turno per compiere qualche servizio o corvée. Quel detenuto dallo sguardo scuro e ineffabile scambiò poche parole con papà, quanto basta per rivelargli di essere nato in Città Alta e di aver sempre vissuto, fino all’epoca del misfatto, in un angusto appartamento affacciato sul Lavatoio.

Nostro padre decise in un attimo, come al solito: quell’uomo meritava una seconda possibilità. Gli promise che, una volta saldato il suo debito con la giustizia, gli avrebbe dato un lavoro.

Trascorsero pochi mesi e in una gelida mattina di fine novembre, avvolto in un vecchio e consunto cappotto di lana, Mario si presentò al ristorante chiedendo del signor Mimmo. Papà mantenne la promessa: in cucina c’era bisogna di un volenteroso lavapiatti.

Mario se ne stava sempre da solo. Fumava da solo. Mangiava da solo. Più volte lo vidi scegliere con competenza gastronomica qualche boccone dalle padelle dei cuochi così da concedersi una cenetta coi fiocchi da gustarsi in taciturna beatitudine.

Ero un bambino curioso e volevo sapere. Chiedevo spesso a mio padre cosa avesse potuto compiere di così grave un uomo tranquillo e apparentemente innocuo come Mario. Non mi rispose mai se non con un vago: “Nella vita può capitare di compiere degli errori che poi si pagano duramente”.

Arrivò la bella stagione e in una sonnolenta serata di luglio trovai il coraggio di avvicinarlo. Era orario di chiusura e nel ristorante era rimasta solo una coppietta che, occhi negli occhi, esitava nel terminare il dolce affinché non svanisse la magia in cui erano avvolti.

Mario cenava a un tavolo in penombra in fondo alla sala e io mi sedetti accanto a lui. Cominciammo a parlare. La spontanea ingenuità delle mie domande infransero quel muro di silenzio dietro al quale si era riparato sin dal suo arrivo. E da quel giorno diventammo amici.

Mi parlò della vita in carcere, in quanti condividevano la cella, di come trovò il modo di farsi rispettare dagli altri detenuti appena giunto a Sant’Agata, svolgendo le mansioni più umili, come pulire le latrine o lavare le pesanti stoviglie della mensa.

Mi raccontò della luce del mattino che filtrava dalle inferriate alle finestre. E poi dell’ora d’aria, in cui misurava la sua ombra proiettata sul muro, vedendola allungarsi e accorciarsi secondo i mesi e le stagioni. Non gli chiesi mai perché fosse finito in prigione, mi aveva già risposto papà e mi bastava.

Osservavo i suoi gesti quotidiani ed era evidente la sua gioia per la libertà riguadagnata. Lo capivo da come sorseggiava il caffè, rigorosamente corretto “Vecchia”. Teneva sospesa la tazzina e lo consumava con lentezza, mentre ad occhi socchiusi ne coglieva a pieno l’aroma. E quel suo modo di indagare il cielo, augurandosi il vento e la pioggia, o la neve, per riceverli sul viso e sentirsi vivo più che mai.

Ci fu anche quella volta in cui stavo giocando a pallone alla Fara. Ero pronto per una rimessa in gioco quando lo vidi lì, sulle Mura, intento a scrutare l’orizzonte con un sigaretta ormai spenta stretta tra le labbra. Era l’immagine più somigliante alla libertà che avessi mai visto.

Un giorno, tornato da scuola, vidi mio padre profondamente turbato. Chiesi a mia madre cosa fosse successo ma non mi disse nulla, scosse solamente il capo.

Era l’una e mezza, avevo fame e corsi in cucina, notando subito che Mario non c’era. Alle prese con piatti e stoviglie vi era il nuovo arrivato, un ragazzo siciliano magro come un chiodo assunto qualche giorno prima per servire ai tavoli. Cuochi e camerieri, sprofondati in un silenzio innaturale, erano concentrati ognuno sulle proprie mansioni. Il mio smarrimento venne risolto dal Genio che, senza preamboli, mi disse: “È morto il Mario, ha avuto un infarto”.

Fu uno schiaffo sul viso, doloroso quanto inatteso. Trattenni le lacrime. Non era giusto, avevo ancora tante domande da porgli. Pensai che forse non volesse più rispondermi e per questo se ne era andato per sempre. Il Genio insistette per farmi bere un bicchiere d’acqua: “Vedrai che poi stai meglio.”

Ma io non desideravo affatto stare meglio. Volevo tenermi per un po’ tutto il dispiacere di aver perso Mario. Un uomo che ricordo con affetto per la sua schietta e ruvida umanità, a cui sarò sempre grato per avermi rivelato una visuale differente sulla complessità della vita.