Al ghè amò ol Mimmo?

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Per chi si occupa come noi di ristorazione e di ospitalità, l’espressione “scendere in ristorante” fa parte del lessico quotidiano. Abitare al piano di sopra, infatti, semplifica la vita e non di poco.

Nei suoi ultimi anni, a papà capitava spesso di “scendere in ristorante”, ma solo nelle ore più quiete. Come alle sei del mattino. Il momento in cui, dopo aver impastato e infornato i suoi amati filoni, inebriato dal profumo del pane e in completa solitudine si dedicava alla lettura, pagina dopo pagina, de L’Eco di Bergamo.

Oppure alle tre del pomeriggio, l’ora in cui il vociare ininterrotto di clienti e camerieri si interrompeva bruscamente per lasciare spazio al silenzio. Vestito di tutto punto, giacca, cravatta e camicia stirata con cura, papà raggiungeva la sua postazione prediletta – un’ampia poltrona ben occultata dalla cassa e dalle foglie pendule del ficus – per rendersi invisibile al mondo circostante.

Armato di matita Faber Castel perfettamente appuntita e gomma immacolata, nostro padre consacrava il proprio “scendere in ristorante” a quella che era la sua più grande passione: le parole crociate de La Settimana Enigmistica.

Papà amava troppo starsene lì, seduto dove avrebbe voluto stare per sempre. Dove lo aveva condotto la vita, in quel ristorante che era diventato, anno dopo anno, una casa per tutti. Perché ogni ristorante è una casa e ogni casa è un ristorante. Ce lo ripeteva spesso.

In Città Alta poi, proprio per la sua intimità urbana, dove le distanze si accorciano e la formalità diviene superflua, anche la Corsarola si trasforma in una casa. Anzi, in un lungo corridoio dalle pareti in pietra gravide di storia, dove le porte dei locali e delle botteghe si aprono su vere e proprie stanze.

Succedeva, ogni tanto, che qualcuno aprisse una di queste “stanze” entrando all’improvviso nel ristorante e senza il minimo tatto esclamasse ad alta voce: “Ma al ghè amò ol Mimmo?”.

Sarà stato un caso, ma ciò avveniva sempre nel primo pomeriggio. Dal suo nascondiglio papà replicava a tono, con quell’ironia pacata e sottile che lo distingueva.

Le sue risposte erano ogni volta differenti. Con apparente distacco e serietà rispondeva: “Sì, c’è ancora, ma è andato a giocare al lotto il 47: morto che parla”. Oppure: “Certo che c’è ma se ne sta in giardino a bagnare le piante per evitare gli scocciatori”. O ancora: “Sì, ma è andato al cinema. Perché almeno là, al pomeriggio, non c’è nessuno”.

Altre volte, invece, dopo un rapido scambio di battute, papà coinvolgeva l’avventore di turno nella soluzione di un cruciverba particolarmente complesso. Di solito il Bartezzaghi.

Ci fu anche quella volta in cui entrò un cliente abituale che gli disse: “Ma lo sa che stanotte ho sognato che lei era morto? Allora sono venuto a verificare di persona”. La sua risposta fu come al solito immediata: “L’ha sognato stanotte? Che giorno è oggi, il 27? Bene, andiamo subito a giocarcelo al lotto!”.

Nostro padre era fiero delle proprie origini meridionali. I tanti anni vissuti prima a Milano poi a Bergamo non avevano affatto scalfito il suo senso tragicomico dell’esistenza né tanto meno la sua adesione al celebre aforisma del suo amato Eduardo: essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male. Così, in quei momenti, non mancava mai di toccare ferro ma gli faceva enorme piacere essere ancora nei pensieri dei suoi clienti.

Papà adorava anche Totò. A me lo ricordava in molte occasioni, per quella prontezza nelle battute, per quel suo modo sempre lieve di creare intenzionalmente degli equivoci che ogni volta finivano in risata. Brevi momenti di intervallo tra un otto verticale e un cinque orizzontale. Continui incroci, sulla carta come nella vita.