Cosa mange mé?

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Oggi il mio lavoro è di gestione, supervisione, relazione, ma un tempo, quando ero un ragazzo traboccante di energia vitale e voglia di fare, mi capitava spesso di servire ai tavoli. Mi piaceva. Amavo stare in mezzo alla gente, scrutarne gli sguardi, osservarne i vezzi e i gesti.

Pochi luoghi permettono di avere la percezione esatta dell’evoluzione degli usi e dei costumi di un popolo come un ristorante. Un osservatorio privilegiato che ci permetterebbe di scrivere un trattato di antropologia o una vera e propria biografia dell’italiano medio dal dopoguerra ad oggi.

Fino a qualche anno fa – parecchi a dire la verità – la domenica al ristorante rappresentava un evento, un qualcosa di speciale da segnare sul calendario, di solito quello di Frate Indovino che se ne stava appeso al muro nella maggior parte delle cucine italiane. Che si trattasse di una semplice trattoria o di un ristorante raffinato era comunque l’eccezione alla norma e la si attendeva con trepidazione.

Sarà stata una domenica di maggio a metà degli anni Settanta. Immerso nelle mille voci del ristorante – le risate squillanti degli avventori, le comande riportate non proprio sottovoce dai camerieri, l’acciottolio di piatti e stoviglie proveniente dalla cucina – notai un uomo e una donna sulla trentina seduti compostamente a un tavolo vicino all’entrata. Mi affrettai a portare ad entrambi il menù.

Di certo marito e moglie, i loro tratti rivelavano l’appartenenza alla fiera stirpe orobica. La postura, invece, tradiva l’impaccio di chi si sente fuori posto, avvezzi com’erano a consumare ogni pasto nella cucina di casa. Quella domenica, però, erano determinati a regalarsi un momento speciale, che profumasse di pizza appena uscita dal forno a legna.

Ricordo nei minimi dettagli la figura di quell’uomo robusto, ben pettinato e dal viso rasato di fresco. Aveva lavorato duramente per sei giorni, dall’alba al tramonto, e ora riposava il settimo. Un po’ come fece qualcun altro, al tempo in cui la ristorazione non esisteva ma bastava una mela per rovinarsi la digestione e il futuro delle generazioni a venire.

L’uomo non aveva aperto il menù e il motivo era chiaro. Tra le mura domestiche era abituato a mangiare senza discutere quello che la moglie gli presentava nel piatto, così, quando arrivai per prendere l’ordinazione, si rivolse candidamente alla consorte chiedendole: “Cosa mange mé?”

Era la moglie che decideva, proprio come a casa, e la risposta era nell’aria: capricciosa o quattro stagioni. In quel preciso momento, però, avvenne qualcosa di inaspettato capace di cambiare per sempre la vita di quell’uomo, quantomeno a tavola. Vide passare un fritto di pesce.

Non l’aveva mai assaggiato ma ne aveva sentito parlare, forse a qualche matrimonio o riunione di famiglia, in cui il cugino “che ha girato il mondo” favoleggiava di piatti succulenti di cui si era rimpinzato in bassa Italia.

Una mia fantasia, questa. O meglio, un’interpretazione credibile di ciò che può aver attraversato la sua mente in quel momento. Non era affatto una mia fantasia, invece, lo sguardo rapito che rivolse a quel piatto ammantato di esotico che diffondeva nell’aria un profumo irresistibile.

L’uomo chiese con garbo alla moglie il permesso di ordinare il piatto che aveva visto passare. Il suo destino ora era nelle mani di quella donna che, per l’occasione, sfoggiava una collana di perle rimasta chiusa nel cassetto chissà da quanto tempo. L’espressione dubbiosa di lei non prometteva nulla di buono. Invece, ella si dimostrò magnanima e, stemperando la tensione ormai palpabile nell’aria, pronunciò il tanto sospirato “sì!”.

Lei decise per una capricciosa e lui, va be’, la quattro stagioni l’avrebbe mangiata un’altra volta. Pochi minuti di attesa ed eccola lì, dinanzi ai suoi occhi, una sontuosa frittura di gamberetti e calamari. Mi è difficile descrivere a parole la soddisfazione che narrava quello sguardo perso in quel trionfo dorato di fragranze e di sapori.

Ancora oggi, qualcuno di una certa età mi ferma lungo la Corsarola per raccontarmi di aver assaggiato per la prima volta la frittura di pesce da Mimmo, ma anche la pizza o la parmigiana di melanzane. Allora ripenso a quell’uomo che tanti anni fa si è regalato un’ora di felicità grazie a quel piatto di gamberetti e calamari. E sono felice anch’io.