Quelle spaghettate “ammare”

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In tempi in cui le mode e le diete hanno trasformato il “mangiare” da piacere a ossessione, corrompendo anche la convivialità, Marino Niola ci rammenta come, da sempre, il cibo sia il motore della cultura umana. Titolare della cattedra di “Miti e riti della gastronomia contemporanea” in una prestigiosa università napoletana, il professor Niola è stato nostro ospite non molto tempo fa.

Con lui abbiamo disquisito sul futuro che ci attende a tavola, ma abbiamo anche ricordato il recente passato, in cui aveva un ruolo rilevante quella che comunemente viene chiamata “cucina di finzione”. Piatti semplici e gustosi nati dalla creatività popolare per dimenticare la povertà almeno per un attimo. Lo erano gli “uccellini scappati” che ancora oggi allietano le tavole bergamasche in versione domenicale. Lo erano le favolose spaghettate “ammare” della mia infanzia.

Arrivava agosto e in un attimo nostra madre ci preparava la valigia: due calzoncini, tre magliette e due costumi per ciascuno. Le scarpe andavano benissimo quelle che avevi ai piedi, a tutto il resto ci avrebbero pensato i parenti di papà. E via sull’Autostrada del Sole in direzione Napoli per poi puntare allo Stretto.

Ci attendevano due settimane di vacanza da vivere con il cuore leggero e spensierato nella terra del pronipote di Noè e inventore della barca a remi – tale Aschenez – che giunse sulla punta dello stivale tre generazioni dopo il diluvio universale e, proprio lì, fondò Reggio Calabria.

Sempre in acqua o sulla spiaggia, le giornate si rincorrevano indolenti una dopo l’altra, mentre un sole fabbro per vocazione forgiava raggi infuocati scagliandoli con precisione sul litorale reggino.

Lo spuntino di mezza mattina era ormai un ricordo, svanito tra una nuotata e l’altra, ma quando il sole raggiungeva il punto più alto nel cielo sapevamo che presto sarebbe arrivato il momento della spaghettata “ammare”. Pasta con le sarde, ma non è detto. Perché se la pesca andava male, e le sarde rimanevano “a mare”, la spaghettata si faceva comunque con tutti gli altri ingredienti.

In quel meriggiare tutt’altro che pallido e assorto, aspettavamo con trepidazione lo “sbarco” di zii e cugini. Lì, tutti in fila, a scrutare l’orizzonte in attesa di quelle piccole barche, ognuna battezzata con il nome della moglie del proprietario. Un omaggio a quelle donne abili nel cucinare il pesce che ora scintillava argenteo e tremolante sul fondo dei loro gozzi, emanando un profumo delicato, di mare e di libertà.

Chi di noi aveva la vista più acuta liberava all’improvviso la propria voce ancora acerba per allertare gli altri. Eccoli là! Come sarà andata la pesca? Quante sarde avranno preso?

Ma si sa, tanto il mare è d’indole generosa quanto ci sono giornate in cui il pesce non vuole proprio saperne di finire nella rete. Forse perché, come cantava De André, le sarde sono state vittima dell’appetito insaziabile dell’alalunga, gran cacciatore di acciughe, sardine e pesci volanti. O forse perché il mare grosso ha indotto le sarde a ripararsi in pertugi e anfratti rocciosi vicino alla costa.

Quand’è così, il pescatore non può fare altro che tornarsene a riva a mani vuote. Ma è proprio nei giorni di magra che in cucina si rivela tutto il genio italico, anche quando l’ingrediente principale viene a mancare all’ultimo minuto. E allora si metteva l’olio in padella e si faceva imbiondire l’aglio, aggiungendo la mollica di pane fino a farla diventare croccante. Da ultimo, senza lesinare, un po’ di finocchietto selvatico appena raccolto sulla spiaggia per profumare i piatti e l’aria attorno.

Per noi bambini i morsi della fame erano ormai intollerabili, così gli spaghetti venivano cucinati lì, poco distante dalla battigia, tra schiamazzi e risate, impiegando fornelli di fortuna. L’aria salmastra a quell’ora sembrava ancora più densa ma tutto, anche il solleone, contribuiva a rendere prelibati quegli spaghetti.

Sarà stata la magia che accompagna la cucina di finzione, dove l’illusione diviene più reale del reale, ma quella pasta con le sarde – senza le sarde – la ricordo straordinariamente gustosa. Del resto, mia mamma ci diceva sempre: “Quando non ce n’è, ce n’è”. Per insegnarci che il bravo cuoco apre la dispensa e dà il meglio di sé con quello che ci trova.