Quelle sfide al Faracanà

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L’Estádio Jornalista Mário Filho di Rio de Janeiro, meglio noto come Maracanà, è lo stadio più famoso del mondo. Su quel rettangolo verde inaugurato in occasione dei Mondiali del 1950 ci hanno giocato Pelé e Garrincha, Zico e Romario.

A noi di Città Alta piaceva affibbiare soprannomi, per tutti e per tutto. Così, quando giocavi alla Fara, a metà degli anni Settanta, quel terreno di gioco spelacchiato e pieno di buche per noi era il Faracanà. Un parto della nostra fervida fantasia, quella di chi vedeva poco la tv e usava molto l’immaginazione. E che praticava il nobilissimo sport della “pallastrada”, secondo le regole raccolte da Stefano Benni anni dopo nella Compagnia dei Celestini.

Che poi su quel campo si imparava davvero a giocare: tutto diventava un esercizio di psicocinetica – quella capacità insita in ognuno di noi di pensare e successivamente eseguire un gesto in una frazione limitata di tempo. Un’abilità in cui ad esempio eccelleva Johan Cruijff, da lui inconsapevolmente affinata in strada, da bambino, tra i muretti e i marciapiedi di Betondorp, un quartiere alla periferia di Amsterdam.

Era l’epoca delle sfide tra scapoli e ammogliati e dei tornei aziendali, non poteva mancare quello tra i bar di Città Alta. Un campionato animato da sfide accesissime, intrise di sudore e polvere, a cui partecipavamo anche noi con una squadra tra le più agguerrite.

Peccato per le maglie che erano gialloblù. I colori li aveva scelti mio fratello maggiore, poco interessato al calcio e ben lontano dalle gioie e i dolori che ti regala il pallone di cuoio, e quindi ignaro del fatto che quelli erano i colori del Verona, in quegli anni la squadra più invisa al popolo milanista. Tutta colpa della “Fatal Verona”, con uno scudetto quasi cucito sulle maglie del Milan sfumato proprio all’ultimo momento il 20 maggio 1973. Ma di questo ne parlerò un’altra volta…

Con grande disappunto mio e di mio padre, entrambi con il cuore a strisce rosse e nere, ci toccò accettare il giallo e il blu come colori sociali del “RIST. MIMMO”, la scritta che campeggiava orgogliosamente sul petto delle nostre divise in lanetta leggera, ben diverse da quelle in microfibra traspirante che si usano oggi.

“Nel buio della sala correvano voci incontrollate e pazzesche. Si diceva che l’Italia stesse vincendo sull’Inghilterra per 20 a 0 e che avesse segnato anche Zoff di testa, su calcio d’angolo”.

La celebre scena fantozziana non è nulla a confronto delle narrazioni mitiche e illazioni fantastiche che si raccontavano a bassa voce durante il torneo dei bar di Città Alta. Presunti ingaggi di giocatori professionisti avvezzi ai campi di Serie C. Gente che per l’occasione si era tagliata i capelli e fatta crescere i baffi così da non essere riconosciuta. Qualcuno azzardava che, sotto mentite spoglie, fosse presente un giocatore di serie A. Uno che se da giovane non si fosse infortunato sarebbe stato più forte di Rivera.

In quelle sere di giugno mitigate da una brezza leggera proveniente dalla Roncola o da chissà dove, chi scendeva in campo al Faracanà si sentiva un vero professionista e non avvertiva alcuna distanza tra lui e chi giocava a San Siro o al Brumana. Forse era la presenza degli arbitri in giacchetta nera e il loro atteggiamento severo e autoritario, o forse era il calore del pubblico, sempre numeroso e festante.

Durante le partite, spesso lo sguardo si posava su quel meraviglioso edificio allora abbandonato che era Sant’Agostino, con il rischio di perderti l’uomo che stavi marcando o di calibrare male la punizione. Peraltro, nello stesso periodo, sul piazzale della chiesa sconsacrata c’era la Festa dell’Unità. Terminate le disfide pedatorie, era spontaneo traslocare di pochi metri per proseguire la serata tra salamelle, birre gelate e immancabili discussioni. Si litigava su fuorigioco non visti grandi come una casa, arbitraggi di parte e interventi da macellaio restati impuniti. Il pallone, poi, spesso e volentieri finiva giù dalle Mura e noi ragazzi correvamo a prenderlo. Non subito, però, solo dopo aver contrattato una lauta mancia.

Come ci ricorda Gianni Brera “il calcio è il più bel gioco del mondo perché tutti l’hanno giocato almeno una volta nella vita, basta avere due gambe, belle o brutte che siano, e su qualsiasi palcoscenico, dal corridoio di casa al cortile, dall’aiuola del giardino alla pubblica via”.

Oggi di spazi liberi, aperti a tutti, dove tirare due calci al pallone ce ne sono sempre meno. Uno dei pochi rimasti a Bergamo è proprio la Fara, o meglio, il Faracanà. E se una di queste sere ci vedessimo lì? Il pallone lo porto io. Sono indeciso tra il Tango Rosario dell’Adidas che conservo gelosamente o un Super Santos da spiaggia che va sempre bene. Ci penso un attimo. 

Robi