I Mondiali d’Argentina. Parte seconda

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Secondo l’affidabile, e pressoché infallibile, calendario di Frate Indovino appeso in cucina sopra il televisore era ancora primavera ma, viste le temperature tendenti al torrido, l’estate qui da noi era già iniziata da un pezzo. Dall’altra parte del mondo, in Argentina, invece era pieno inverno e faceva freddo.

La divisa della Nazionale italiana non era mai stata così bella. A maniche lunghe e di un azzurro intenso e pastoso, con i numeri sulle maglie e sui calzoncini che seguivano una logica tutta nuova: in ordine alfabetico, reparto per reparto. Fu strano vedere Gaetano Scirea con il numero 7, di norma proprietà privata dell’ala destra, o Paolo Rossi, la nostra punta più imprevedibile e guizzante, con il 21.

Le partite si svolgevano anche in orari notturni e in quel caso, per non disturbare nessuno, io e mio cugino Didi le guardavamo sul televisore della cucina. Sì, proprio quello che godeva dell’altissima protezione di Frate Indovino. Ma non era affatto semplice trattenere le grida di gioia o di disappunto. Per non parlare degli improperi rivolti alla terna arbitrale.

Sul prato del Monumental o su quello del Gigante de Arroyito di Rosario, si giocava gagliardi o a passo di danza, ma sempre a ritmo di “Tango”. Il più bel pallone che io abbia mai visto.

Se il nome fu scelto dall’Adidas per omaggiare il ballo simbolo di quel Paese, il design della “pelota” si ispirava a un disegno di Leonardo da Vinci, oggi esposto alla Biblioteca Ambrosiana di Milano: l’icosaedro troncato, composto da dodici pentagoni e venti esagoni che vanno a formare dodici cerchi identici.

Quell’Italia d’Argentina fu una delle più belle nazionali che io ricordi, forse ancora più forte e spettacolare di quella che vinse il Mondiale quattro anni dopo in Spagna. Quell’anno al centro dell’attacco c’era Bettega mentre, in Spagna, in area di rigore ciondolava Graziani. Il fioretto e l’accetta, non me ne voglia Ciccio.

Fu così che il 2 giugno esordimmo contro la Francia di Platini. Non passò un minuto che Bernard Lacombe mise la palla in rete, gelando me e Didi. Con lui condividevo ogni singolo momento del Mondiale, dalle più sottili questioni tecniche del prepartita alla visione della partita stessa, fino al postpartita giocando a Subbuteo.

Al termine del primo tempo il nostro Mondiale sembrava già al capolinea. Nei miei pensieri riapparvero, perfidi e maligni, i fantasmi della rassegna in terra tedesca di quattro anni prima. Per fortuna, il destino aveva deciso diversamente. Prima Paolo Rossi con un gol dei suoi, di rapina, e poi Zaccarelli ribaltarono il risultato a nostro favore.

Dopo aver sconfitto l’Ungheria per 3 a 1, a sorpresa battemmo per 1 a 0 anche l’Argentina, i grandi favoriti per la vittoria finale, con uno splendido gol di Roberto Bettega, ribattezzato “cabeza blanca” dai tifosi locali per quel ciuffo bianco a decorare la criniera.

Riuscimmo così a qualificarci per la fase finale, inseriti in un girone di ferro che comprendeva Germania, Austria e Olanda. Con i tedeschi l’Italia pareggiò una partita che avrebbe ampiamente meritato di vincere, poi regolò l’Austria per 1 a 0, ma arrivò stremata – più nella mente che nelle gambe – alla sfida decisiva con i tulipani.

Dopo un primo tempo ben giocato e chiuso in vantaggio, Dino Zoff venne infilato due volte da lontano, anzi da lontanissimo. Il primo siluro venne scagliato da almeno 25 metri da Brandts, autore anche dello sciagurato autogol che aveva portato in vantaggio l’Italia. Il secondo partì invece dal piede di Haan, pilastro di centrocampo della grande Ajax passato da un paio d’anni ai belgi dell’Anderlecht, da quasi 40 metri.

Saranno stati i miei tredici anni, ma la delusione fu immensa. Al triplo fischio dell’arbitro trattenni a stento le lacrime. Già mi vedevo a correre su e giù per la Corsarola sventolando il tricolore e gridando a squarciagola “Campioni del Mondo!”.

Di quel Mondiale mi ricordo bene la “marmellata peruviana”. Per qualificarsi alla finale, l’Argentina avrebbe dovuto battere “Los Incas” con almeno quattro gol di scarto. Il Perù era un’ottima squadra e, nel turno precedente, aveva vinto agevolmente il proprio gruppo davanti all’Olanda, ma guarda un po’, quella partita finì 6 a 0 per l’albiceleste.

Le malelingue si scatenarono, comprese la mia e quella di Didi. Qualche giornale scrisse che il Perù accolse di buon grado dal governo argentino 35 tonnellate di grano e una linea di credito di 50 milioni di dollari. Chissà. Sta di fatto che da Baires a Ushuaia, dalle pampas alla Patagonia, in tutta l’Argentina divampò una gioia irrefrenabile per quella finale raggiunta giocando a tennis con i discendenti degli Inca.

Sospinta dalla sua gente, quella squadra avrebbe fatto di tutto perché Daniel Passarella, “el capitan”, baciasse il trofeo ideato e disegnato dallo scultore italiano Silvio Gazzaniga.

A poche ore dall’inizio dell’ultimo atto del Mondiale, l’atmosfera negli spogliatoi del Monumental era elettrica ma altrettanto cupa. Cesar Luis Menotti – il carismatico allenatore dell’albiceleste che, un paio d’anni dopo, cenerà Da Mimmo in dolce compagnia per la mia gioia e quella dei miei fratelli – disse ai suoi ragazzi che la partita doveva essere vinta per il popolo argentino e non per i militari seduti in tribuna, bisognava alzare al cielo quella Coppa per la libertà e per la bellezza del calcio, non per compiacere i tiranni.

La finale fu giocata tra Argentina e Olanda e vinsero i padroni di casa ai supplementari per 3 a 1 con due gol di Mario Kempes, giocatore simbolo di quella nazionale. Un vero “dieci”. Un Diez, con lo sguardo da Diez e la “camiseta” da Diez. Un “hombre vertical” che al momento della premiazione non strinse la mano al generale Videla e ai suoi compari, tronfi e sorridenti, schierati accanto al presidente della FIFA Joao Havelange. Non pago di quello sgarbo, il giorno dopo Kempes decise di non partecipare alla conferenza stampa.

Le sue movenze e i suoi tiri al fulmicotone scoccati dal piede sinistro lo resero uno degli attaccanti più forti della sua generazione. Rimasi subito ammaliato da quel giocatore dalle origini tedesche da parte di padre e italiane da parte di madre, nonostante il mio cuore battesse per le impeccabili geometrie della nazionale in tenuta arancione.

Ma tornando alla finale, i minuti regolamentari si chiusero sull’1 a 1, con gli olandesi che, ancora oggi, recriminano per quel palo colpito da Rob Rensenbrink all’ultimo minuto. Anziché gonfiare la rete, la palla si stampò beffarda sopra quella banda nera disegnata alla base del montante alla destra di Ubaldo Fillol, l’estremo difensore argentino, negando così il successo agli Orange. Sempre che poi l’arbitro italiano Gonella non trovasse il modo di annullarlo.

In Olanda sono certi che, se Johan Cruijff avesse giocato quella partita, l’Olanda non avrebbe perso la sua seconda finale consecutiva. Il migliore calciatore al mondo degli anni Settanta, e mio idolo assoluto, si autoescluse dalla rassegna mondiale temendo per la propria sicurezza. Questa fu la versione ufficiale, ma su quella rinuncia aleggiò un alone di mistero che non si è mai dissolto. Qualcuno suppose controversie economiche connesse agli sponsor, altri parlarono di un tentativo di rapimento fallito per un’inezia, altri ancora di intimidazioni provenienti dall’Argentina al fine di non averlo come avversario a quel Mondiale.

Fatto sta che la Coppa fu bianca e celeste. Quello stato di esaltazione collettiva in progressivo crescendo, per i venticinque giorni dell’evento fece dimenticare al popolo argentino le sofferenze e le ingiustizie che stava patendo.

L’infamia e la crudeltà che contraddistinsero quella dittatura finirono da lì a poco, nel 1983, con la disfatta argentina ad opera degli inglesi nella guerra per il possesso delle isole Falkland. Una sconfitta bruciante che ebbe una rivincita su un campo di calcio tre anni dopo, all’Azteca di Città del Messico, grazie ai numeri da funambolo e alla “mano de Dios” di Diego Armando Maradona. Un altro Diez, un altro eroe del popolo amato quanto Mario Kempes. Forse ancor di più.