Nata in una Giardinetta

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Nella Città Alta degli anni Cinquanta ci si parlava ad alta voce dalle finestre e dai balconi, come in una scenografia teatrale allestita per una commedia di Eduardo o di Goldoni. Ma anche di autori locali come l’Avogadri che scrivevano in vernacolo, la cui memoria oggi resiste a stento. D’altronde la Commedia dell’Arte è nata proprio qui con lo Zanni e l’astuto Arlecchino.

Il più delle volte, gli strilli che rimbalzavano tra quelle antiche mura erano in bergamasco stretto, ma non sempre. Tranne alcune ville nobiliari dal prestigio decaduto abitate da pochi fortunati, in quelle case fatiscenti in attesa di risanamento o di restauro vivevano non pochi immigrati provenienti dal Sud Italia.

Quella volta, però, le grida erano chiaramente orobiche. E non era il quotidiano saluto di buon vicinato ma una richiesta di aiuto dalla signora che abitava proprio sopra il ristorante. In quell’umile appartamento di una sola stanza, ci viveva con suo marito Augusto, operaio alla centrale del latte, e il loro bimbo di tre anni.

Giunta al nono mese di gravidanza, quella mattina la donna comprese che era arrivato il momento di partorire. Sola in casa e senza telefono, non le restava che chiamare il “Signor Mimmo” con tutta la voce che aveva per chiedergli di accompagnarla subito all’Ospedale Maggiore.

Il telefono in quegli anni lo avevano solo i ricchi e i locali pubblici, così papà chiamò dal ristorante avvertendo il signor Augusto di ciò che stava accadendo. Arrivò in un attimo ma non c’era tempo da perdere. Dopo un veloce conciliabolo tra i due uomini, Augusto si mise alla guida della nostra Giardinetta con i profili in legno mentre mio padre si accomodò sul sedile posteriore accanto alla signora.

Sì, la nostra mitica Giardinetta, che io ovviamente ho visto solo in fotografia. Erano gli anni della ricostruzione che presto avrebbero portato al miracolo economico. Da Bolzano a Siracusa, gli italiani erano in preda a un desiderio irrefrenabile di libertà e di benessere. Avere un’auto era uno dei mezzi più semplici per raggiungerli, e non valeva solo per i più abbienti, ma anche per chi aveva possibilità economiche limitate. Perché non c’erano solo la Mercedes 300 SL con le portiere che si aprivano verso l’alto come le ali di un gabbiano o la Giulietta dell’Alfa Romeo, magari nella versione Sprint, c’erano anche la Prinz e le utilitarie della Fiat, come la Topolino e la Giardinetta.

Ma qui, qualcuno aveva una gran fretta di emettere il suo primo vagito. Una volta raggiunta Porta Sant’Agostino, la signora strinse con forza la mano di papà e si mise a gridare in dialetto bergamasco “la ghè, la ghè!” e la bambina venne al mondo in un attimo, scivolando dolcemente sul pavimento della Giardinetta.

Augusto accostò istintivamente l’auto sul ciglio della strada mentre mio padre raccolse con cura quell’esserino urlante avvolgendolo in un lembo della vestaglia indossata della signora. Non c’era tempo da perdere, una mano impegnata a sventolare un fazzoletto fuori dal finestrino e l’altra a tenere la neonata con tutta la delicatezza possibile, Mimmo intimò al neopapà di ripartire immediatamente.

Con il clacson della Giardinetta costantemente premuto, in pochi minuti raggiunsero l’Ospedale Maggiore. Lì trovarono ad attenderli un medico e due infermiere che tagliarono all’istante il cordone ombelicale.

Augusto e consorte erano stremati ma felici. Mio padre sprizzava gioia da tutti i pori e abbracciò timidamente il suo vicino di casa complimentandosi con lui: diventare papà era la cosa più bella del mondo. A quell’epoca, di figli i miei genitori ne avevano già tre ma in pochi anni sarebbero diventati sette. Il numero perfetto per chi, nella vita, aveva scelto la strada dell’accoglienza e della ristorazione.

Quella bimba nata in Città Alta, anzi in una Giardinetta, fu chiamata Cristina. Ancora oggi ci viene a trovare e ogni volta ci salutiamo con un sorriso fatto di affetto e complicità.