Wally e il calcio di rigore
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Chi per lavorarci un’estate, chi per fermarsi una vita. Dal 1956 ad oggi, tra i tavoli e nelle cucine di Mimmo si sono avvicendate un numero infinito di persone. Ognuna di loro ha lasciato un segno. A volte solo un leggero tratto a matita. A volte un solco indelebile, come Wally.
Ricordo la sua figura alta e allampanata, quel suo viso smunto contornato da un paio di baffi, neri e sottili, che si era fatto crescere per apparire un uomo di mondo, esperto della vita e delle sue intricate faccende.
Funambolo e istrione, era un barista provetto, un vero artista quando era alle prese con la macchina del caffè. Il suo vero nome non lo ricordo. Anche perché, per tutti noi, lui era semplicemente Wally.
Proprio come Wally Gator, l’allegro ed estroverso alligatore protagonista di un cartone animato dei primi anni Sessanta di Hanna e Barbera, gli stessi ideatori di Braccobaldo, Magilla Gorilla e tanti altri personaggi indimenticabili. Almeno per noi che abbiamo trascorso l’infanzia con Rai Uno, Rai Due e la TV Svizzera quando funzionava il ripetitore.
Wally Gator scappava in continuazione dallo zoo per andarsene alla scoperta del mondo ma, dopo mille peripezie, alla fine di ogni episodio tornava invariabilmente ai comfort garantiti dalla propria gabbia. Chissà, forse era lì il motivo per cui a Wally venne affibbiato il nome di quell’impertinente alligatore con tanto di cappellaccio viola calcato sulla zucca.
A differenza di oggi, dove le mansioni del barista sono state assorbite da chi serve in sala, negli anni Settanta, in un ristorante, quel ruolo aveva una certa importanza.
Wally era considerato un’autorità in materia e gli dava grande soddisfazione farti capire perché è necessario variare la macinatura dei chicchi a seconda del tempo o illustrarti con sapienza come si pulisce correttamente la macchina del caffè, un’operazione che incide sulla bontà di un espresso più ancora della tostatura o della scelta della miscela.
Vere e proprie lectio magistralis che a dir la verità si dilungavano un po’ troppo. Non perché eccedesse nei particolari, semplicemente perché Wally balbettava. La cosa non lo frenava di certo, tant’è vero che noi del ristorante, così come i clienti, lo ascoltavamo sempre con grande attenzione, sorvolando su quelle sillabe ripetute all’inizio di ogni frase.
Wally non si limitava al caffè e al suo aroma, le sue narrazioni spaziavano dalle conquiste femminili alle sfide a braccio di ferro in taverne losche e inaccessibili a noi comuni mortali. Insomma, una vita vissuta tra avventure e pericoli di ogni genere, a sentir lui.
I suoi racconti erano arricchiti da movenze teatrali prossime alla commedia dell’arte. Così, tra un caffè e l’altro, Wally si esibiva su quel palcoscenico davvero unico che è il bancone del bar.
Sembrava uscito da un film con Bud Spencer e Terence Hill. Aveva un incisivo spezzato a metà e se qualcuno gli chiedeva come se lo fosse rotto lui preparava la risposta cominciando da una pausa melodrammatica. Si metteva in posa appoggiando la schiena alle bottiglie di amari e superalcolici da lui disposti in ordine cromatico sugli scaffali. Quindi, allargava le braccia, nemmeno fosse un cowboy pronto ad afferrare la pistola per un imminente duello. Infine, scuoteva il capo come uno che la sa lunga e sta per rivelarti qualcosa di sconvolgente.
Non so se questa messinscena, ingenua e un po’ grottesca, servisse a prendere tempo così che le prime parole non uscissero interrotte dalla balbuzie, sta di fatto che la storia si risolveva più o meno in questi termini: “Erano sei, forse sette, tutti giocatori di rugby, ed io ero solo, mi sono appoggiato al muro, proprio come faccio adesso e li ho invitati a farsi avanti, a uno a uno. Li ho stesi tutti ma l’ultimo è riuscito a sorprendermi e a darmi una testata a tradimento, rompendomi un dente”.
Con il passare degli anni Wally lasciò il bancone del bar per servire in sala. Lì non era così a suo agio come tra miscele e tazzine ma aveva la possibilità di guadagnare di più grazie alle mance. Non era più il leader incontrastato dell’area bar ma riuscì comunque a mantenere il suo status di personaggio più unico che raro anche portando in tavola capricciose, fritti e cannoli.
Arrivarono gli anni Novanta e tra noi amanti del pallone fece irruzione il Fantacalcio. Un gioco che ti permetteva di comporre e gestire una tua squadra immaginaria formata da calciatori reali, scelti fra quelli che giocavano in Serie A. Eri il presidente e l’allenatore di quella squadra, vuoi mettere?
Il gioco si diffuse anche da Mimmo coinvolgendo cuochi, camerieri e non pochi clienti. Vedersi al venerdì sera per scambiare giocatori, commentare i risultati e prepararsi alle partite della domenica a venire divenne un rito irrinunciabile.
Questi incontri erano animati soprattutto dalle discussioni sugli errori arbitrali, il più delle volte inammissibili, su cui Wally si espresse in maniera categorica: “Così però si falsifica il Fantacalcio!”. Un concetto surreale ma al tempo stesso veritiero. Un’affermazione che ti saresti aspettato da qualche politico di fede romanista a una festa capitolina, ovviamente in terrazza e tra fiumi di champagne, conclusa con la minaccia di un’interrogazione parlamentare.
Quelle serate indimenticabili – che anziché svolgersi all’Hotel Gallia di Milano si infiammavano in una saletta ben riparata del nostro ristorante – non potevano terminare senza il momento clou che sanciva la conclusione di contese e contrattazioni. Un’irresistibile pantomima da far invidia a Marcel Marceau: il calcio di rigore, con saltello alla Van Basten, tirato da Wally.
All’approssimarsi della mezzanotte, il camaleontico barista prendeva posizione al centro della sala. Era il segnale. Mentre sistemava con cura un pallone immaginario, calava d’improvviso un silenzio innaturale, schiavo di un tempo immobile e sospeso.
Concentrato come il muezzin che si appresta al suo canto serale, Wally si accingeva a vivere il suo istante di gloria. Mani sui fianchi, saltello, rincorsa breve e tiro secco nell’angolo. Portiere spiazzato e folla in delirio.
Come previsto dal cerimoniale, in corsetta e con le braccia protese verso l’alto, a Wally non rimaneva che il giro dei tavoli per ricevere gli applausi e gli abbracci dei presenti.
Ne sono certo. Come Wally Gator, anche lui voleva evadere dal suo zoo, solo per un attimo, e diventare qualcun altro. Marco van Basten, per esempio.