Una bottiglia che non stapperemo mai

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Mio padre amava le sfide, ma solo quelle con se stesso. Scommettere, invece, per gioco o tantomeno per soldi, non lo aveva mai attratto. Tranne una volta, il 9 gennaio del 1971.

Smentendo il detto popolare “l’Epifania tutte le feste si porta via”, quel sabato freddo e piovoso era tutt’altro che dimesso, riscaldato dal frenetico via vai di avventori e camerieri che nella sala da pranzo si muovevano a passo svelto.

Un nostro cliente abituale, sovente in trasferta dalle nostre parti, attendeva pazientemente che si liberasse un tavolo. Era un bolognese di mezza età, sanguigno e dalla voce squillante, sempre vestito di tutto punto. Mentre lo osservavo avvolto nel suo elegante cappotto cammello che lo faceva sembrare più pingue di quanto lo fosse già, sopraggiunse papà.

Dopo i convenevoli di rito, i due si ritrovarono chissà come a discutere di vicende pedatorie, arbitri e goleador. Una battuta tira l’altra e il tifo calcistico ebbe il sopravvento. Il ben pasciuto felsineo affermò che il Milan, la squadra del cuore di papà nonché la mia, la domenica non sarebbe riuscito a battere il suo Bologna a San Siro.

Iniziò per gioco ma non finì in tragedia. Anzi, quel vivace e allegro battibecco a cui assistemmo divertiti io e i miei fratelli si concluse con una scommessa: in palio un prezioso barolo del ‘64.

In quegli anni non vi erano i palinsesti televisivi a dettar legge e la contemporaneità degli incontri era un requisito essenziale. Si giocava tutti la domenica alle ore 15. Anche Milan Bologna, naturalmente.

Immaginavo la scena: sotto lo sguardo severo dell’arbitro, il triestino Mario Bernardis, una virile stretta di mano tra Gianni Rivera e Giacomo Bulgarelli, i due capitani di lungo corso delle due squadre in campo, avrebbe dato il via alla contesa a cui avrebbero assistito 65 mila spettatori paganti.

Attesi con trepidazione l’inizio del secondo tempo. Dopo la réclame dello Stock 84, la voce di Roberto Bortoluzzi dallo studio, o qualcuno della truppa di radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto”, mi avrebbe edotto sull’andamento della partita.

Pur se intensa e combattuta, non fu una sfida memorabile. Si concluse 2 a 1 per il Milan grazie ai gol di Prati e di Rognoni, con gol di Savoldi a metà del secondo tempo ad accorciare le distanze ma non a rimettere la gara in parità.

Di indimenticabile, purtroppo, vi fu un episodio che vide protagonista in negativo uno dei miei idoli d’infanzia: Romeo Benetti. Centrocampista con due cuori e quattro polmoni, nella sua lunga carriera non fu mai espulso, nemmeno in quel giorno in cui una sua entrata fin troppo decisa sulla gamba di un avversario ebbe conseguenze drammatiche.

In quello scontro brutale, il giocatore del Bologna Franco Liguori riportò la rottura del legamento crociato del ginocchio. Un infortunio molto serio da cui oggi si recupera nel giro di sei mesi. Negli anni Settanta, invece, la faccenda era assai più complicata, la rottura del crociato il più delle volte significava la fine della carriera di un calciatore.

Dopo oltre un anno, Liguori ritornò in campo con la maglia rossoblù, ma non fu più quello di prima. Giocò ancora per un paio di stagioni per poi decidere, a soli trent’anni, di lasciare il calcio.

Per quel fallo, Benetti fu denunciato alla Procura della Repubblica di Milano e sull’incidente il Commissariato di Pubblica Sicurezza di un rione del capoluogo emiliano inviò un rapporto alla Pretura di Bologna. Fu la prima e unica volta che la magistratura si interessò a una circostanza di gioco avvenuta su un campo da calcio.

Assassino e macellaio furono gli insulti più gentili che il mediano di Albaredo d’Adige ricevette sui giornali e dai tifosi avversari. Per sua fortuna, all’epoca, non esistevano i social network, altrimenti si può immaginare il massacro mediatico a cui sarebbe stato sottoposto.

Ancora oggi, Benetti afferma di essere entrato duro ma non per far male, tant’è che in quell’occasione l’arbitro assegnò un calcio di punizione contro il Bologna per simulazione.

Al di là di questo episodio riportato sulle pagine più tristi degli almanacchi del calcio italiano, il Milan si aggiudicò la partita e papà vinse la scommessa.

La sera stessa, con un sorriso forzato tratteggiato sul volto, il nostro amico bolognese si presentò al ristorante per consegnare a mio padre una bottiglia di Barolo Scarpa Riserva Speciale annata 1964.

Papà la contemplò con soddisfazione rigirandola tra le mani per poi riporla in alto su uno scaffale. Ci chiamò a raccolta e intimò a tutti noi, figli, cuochi e camerieri, di non toccarla, per nessun motivo. Non avrebbe mai più scommesso e quel piccolo trofeo doveva restare lì, a imperitura memoria, di quell’unica e straordinaria vincita.

Diversi anni dopo, per caso, l’occhio mi cadde su quella bottiglia ormai abbandonata lassù, su un ripiano inaccessibile. Fui preso dall’impulso di riguardarla. Il testo riportato sul retro dell’etichetta era a dir poco maschilista ma andava letto con un sorriso.

Meravigliosamente ci accresce le forze del corpo e ci aguzza l’ingegno. Egli vale a rallegrare i cuori nostri afflitti e sbattuti da lunghissime cure. Chi non ne beve non è adatto a generare, è privo di ardimento e di robustezza corporea, ha debole e inferma la virtù concepitrice. Il vino barolo aiuta lo stomaco, fa digerire e giova ai nervi.

Quella bottiglia oggi è ancora qui. L’abbiamo messa in bella mostra proprio all’entrata del ristorante. Chissà, forse il vino è diventato aceto oppure è ancora un nettare degli dèi. Resterà un mistero irrisolto perché una cosa è certa: non la stapperemo mai. A noi basta guardarla per ricordare papà e quel suo piccolo inebriante trionfo.