Se son rose…
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Anche per i più sprovveduti, ora, è naturale mettersi a tavola esaltando l’importanza della stagionalità e l’eccellenza delle materie prime, con il presupposto imprescindibile di preferire i cibi a chilometro zero o di prossimità. Oggi sappiamo che ogni pietanza deve il suo sapore agli ingredienti e solo in parte alla preparazione, mentre i nostri valori di riferimento in cucina sono semplicità e freschezza, facendo sempre attenzione alla salute.
Nei miei amati e indimenticati anni Ottanta non era proprio così. Panna e maionese erano ovunque, imperversavano l’aspic e le pennette alla vodka. Ma chi oggi ricorda quel decennio come un festival degli orrori si sbaglia di grosso. La libertà e la creatività di quel tempo rimangono insuperati, almeno per me, e non unicamente in cucina.
Non c’erano solo i tortellini 3P “prosciutto, piselli e panna” e i gamberetti in salsa rosa. In quegli stessi anni, due grandi maestri della nuova cucina italiana come Gualtiero Marchesi e Fulvio Pierangelini offrirono il meglio del proprio genio. Il primo ammaliò il mondo preparando un sorprendente “riso, oro e zafferano” che contribuì a portarlo in un cielo stellato chiamato Michelin, il secondo concepì un piatto che, nel suo evidente minimalismo, riuscì a emozionare ogni gourmet: la “passatina di ceci e gamberi rossi”.
Così, mentre gli anni Ottanta danzavano frenetici – generando una travolgente gioia di vivere, non di rado sopra le righe, e un’ossessiva ricerca del piacere – io vivevo con entusiasmo i miei vent’anni, pronto ad accogliere un futuro gravido di soddisfazioni e cambiamenti epocali. Iniziavo a muovermi con sicurezza nel ristorante sotto l’occhio vigile di papà, a volte infastidito dalla sua costante supervisione ma grato della sua rassicurante presenza.
Una sera d’estate, sul tardi, entrò una giovane coppia, direi sui venticinque anni o giù di lì. L’outfit era da manuale, anche se all’epoca mi sembrarono elegantissimi. Giacca oversize con spalline smisurate per lui, abito sgargiante con fiocco macro in vita per lei. Anche il parrucchiere aveva fatto il suo: capelli corti sui lati con chioma lunga dietro per lui, ricci e voluminosi con frangia piena per lei.
Erano senza dubbio alla loro prima uscita. Lo si intuiva dalle attenzioni eccessive del ragazzo e dalla disinvoltura forzata, volta a mascherare un lieve imbarazzo, della ragazza ma, soprattutto, dai loro sguardi colmi di speranza in un amore che stava per sbocciare.
Il bravo ristoratore deve riconoscere alla prima occhiata chi ha di fronte, adeguandosi all’istante ai differenti momenti e situazioni che si possono venire a creare. Io ero ancora sul nascere della mia avventura professionale, non più goffo e impacciato come i primi giorni ma pur sempre agli inizi. Affinavo il mio istinto pesando ogni dettaglio, attento ai più piccoli gesti e alle modulazioni della voce, pronto a carpire segnali apparentemente impercettibili.
Quella coppia mi piaceva e desiderai di cuore che quel primo appuntamento potesse entrare nel loro album dei ricordi, quelli indimenticabili. Presi l’ordinazione al tavolo ed entrambi scelsero il “risotto alla panna, fragole e champagne”. A pensarci oggi, un piatto davvero insensato. Sfumando il risotto a fine cottura con lo champagne, del rinomatissimo e costoso spumante francese non rimaneva che una vaga nota acidula.
Quel risotto a dir poco strampalato era richiestissimo e non poteva mancare nel nostro menù. Come per altri piatti di quel periodo, l’uso di ingredienti dal prezzo elevato era quasi un dovere. Essi custodivano profondi significati simbolici di affermazione sociale e di un ritrovato benessere dopo i plumbei anni Settanta.
Ma può esserci una prima cena tra innamorati senza un calice di vino? Certo che no. Così, dopo aver ordinato i due risotti, lui volle consultare la lista dei vini. Aspettai qualche minuto e tornai al tavolo. Senza distogliere lo sguardo dagli occhi languidi di lei, il ragazzo mi chiese di portare loro una bottiglia di Praim Ros.
Proprio così, con questa pronuncia. Avrei voluto replicare che il vino era italianissimo e si chiamava Prime Rose ma non lo feci. Perché rovinare quell’atmosfera magica e sospesa in cui erano immersi i due piccioncini?
Ogni ristorante è un teatro, un luogo di spettacolo. E non è necessario dire sempre la verità. Vi è un gioco della parti, si recita a soggetto e ognuno ha il diritto di essere uno, nessuno e centomila. Quanto Pirandello in questa zona franca dove tutto è possibile.
Erano anche gli anni in cui l’inglese si diffuse in qualunque campo come la gramigna. Il cibo divenne food – slow o fast, ma comunque food – le riunioni diventarono briefing e nacquero i brain storming, i noleggi si tramutarono in leasing e così via. Praim Ros ci poteva anche stare.
Già alloggiato nel secchiello del ghiaccio, portai loro quel vino frizzante, bianco e secco, che avrebbe contribuito a rendere spumeggiante anche l’atmosfera. Ero felice che per il loro primo incontro avessero scelto di venire da me.
Mi allontanai in fretta da quel tavolo per recarmi in cucina, quando vidi mio padre che, senza farsi notare, stava affondando un cracker in una vaschetta di Philadelphia. Aveva l’espressione di chi ha appena messo le mani nella marmellata.
Più sorpreso che scandalizzato dissi: “Papà, ma cosa mangi? Tu, che hai sempre adorato le fave con il pecorino!”. Nella sua ovvietà, la risposta di mio padre risultò inattaccabile: “Perché no?”.