- Due calci al pallone
Quell’Italia Mundial con Stefano Caglioni
5 luglio 1982, stadio Sarrià di Barcellona. Sono le ore 17 e 15 e sta per iniziare la partita delle partite: Italia Brasile. Chi vince va in semifinale al Mondiale.
Sono passati più di quarant’anni ma io ricordo ancora le formazioni a memoria. L’Italia schierava Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati – sostituito alla mezzora dal diciottenne Bergomi, lo “zio”, per i baffi da uomo maturo che esibiva con orgoglio – poi Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. Sì, c’era anche Ciccio Graziani. Gianni Brera lo definì “ingobbito di generosa broccaggine” ma pure lui, quel pomeriggio, fece la sua parte.
L’avversario era un Brasile davvero imbattibile. Una squadra ricca di talento e forza fisica, genio e sostanza. In realtà aveva due punti deboli, il portiere e il centravanti, ma la formazione faceva davvero paura: Valdir Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho, Socrates, Falcao, Serginho, Zico, Eder.
L’israeliano Klein portò il fischietto alle labbra e la voce inconfondibile di Nando Martellini annunciò l’inizio della partita. E io ero lì, davanti alla tivù del ristorante con i battiti accelerati e la sudorazione delle mani in aumento. Per scaramanzia indossavo la maglietta del Brasile, un regalo di mio padre per il mio diciassettesimo compleanno. Ammiravo quella squadra, ne ero letteralmente stregato, ma quel pomeriggio il mio cuore era completamente azzurro.
Se socchiudo gli occhi rivedo tutto: la maglia di Zico strappata dalle unghie belluine di Gentile, le movenze indolenti di Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio conosciuto come Socrates, e le perfette geometrie disegnate da Falcao, l’ottavo re di Roma. Ma ricordo altrettanto bene i dribbling vertiginosi di Bruno Conti, il ghigno sardonico di Cabrini, il bell’Antonio, e la parata all’ultimo minuto di Zoff.
Sappiamo tutti come andò a finire. Il nostro piccolo grande centravanti segnò tre gol a quel Brasile inarrivabile. Il volto scavato dalla tensione e dalla fatica, Paolo Rossi da quel giorno diventò Pablito, l’italiano più famoso al mondo al pari di Leonardo e Michelangelo.
Poi iniziò la festa, ovunque, in ogni strada o piazza, casa o locale. Anche in Città Alta. Un momento di esaltazione collettiva alla quale si unirono tutti, anche Stefano Caglioni che abitava vicino al Palazzo della Ragione. Aveva fatto il Sarpi e si era laureato in lettere ma per vocazione era un pittore. Sempre con la chitarra in mano e i suoi quadri sottobraccio, era normale incontrarlo in Piazza Vecchia o in giro per Città Alta e spesso ci veniva a trovare.
Quella sera, appena terminata la partita, Stefano si precipitò nel Ristorante urlando a squarciagola “Rossi! Rossi! Rossi!”, esibendo tutta la sua erre moscia. Per l’occasione indossava la maglia azzurra numero 20 di Paolo Rossi, il suo sorriso e lo sguardo stralunato irradiavano felicità pura. Placata l’euforia si sedette al tavolo con me e ordinò una porzione abbondante di calamari fritti, il suo piatto preferito.
Io con la maglia verdeoro della Seleção, lui con la maglia della nostra Nazionale, parlammo tutta la sera di calcio. Non l’avrei detto ma era un vero esperto. Squadre e giocatori, tattiche e allenatori, la conversazione non calava di intensità. Tra un suo ricordo di Ezio Gol, l’atalantino Bertuzzo, e un mio immancabile elogio alla classe sopraffina di Gianni Rivera ebbi modo di fissarlo lungamente negli occhi. Pensavo a quel suo viaggio in India all’inizio degli anni Settanta e a come sarebbe stata la sua esistenza se non ci fosse andato. Avrebbe fatto una vita “normale” come la maggior parte di noi? Forse avrebbe continuato a insegnare lettere in qualche scuola media o liceo della città. Di sicuro non sarebbe stato più felice.
Robi