Mio fratello, quello bello

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Il 4 ottobre del 1969 nacque Massimiliano, l’ultimo dei miei fratelli. Il settimo dei figli messi al mondo dai miei genitori.

In quella data si festeggia San Francesco, così, in omaggio al Santo Patrono d’Italia, mio fratello ebbe anche il secondo nome. All’anagrafe venne registrato come Massimiliano Francesco Amaddeo. Suona bene, non c’è dubbio.

Io avevo solo quattro anni ma ricordo perfettamente il momento in cui la culla venne sistemata nel corridoio in modo da attutire il frastuono proveniente dal ristorante. Mia madre stirava silenziosa in cucina e io cercavo, sollevandomi sulla punta dei piedi, di vedere in faccia l’ultimo arrivato in famiglia.

Il Sessantotto ci aveva lasciati da poco e nulla sarebbe stato come prima. Il fermento del cambiamento era vivo più che mai. Erano gli anni delle rivoluzioni politiche e di costume, degli scioperi dei lavoratori, pure quelli del commercio.

Dalla finestra di casa affacciata sulla via, in piedi sulla sedia e tenuto saldamente da mio fratello più grande, potevo scorgere la fiumana di persone che procedeva a passo lento, sventolando bandiere rosse e alzando grandi cartelli scritti a mano.

“È ora, è ora, potere a chi lavora!”. “Agnelli, Pirelli, ladri gemelli!”. Rammento il turbamento che mi procurarono gli slogan gridati a squarciagola dai lavoratori che sfilavano lungo la Corsarola, teatro di quasi tutte le mie esperienze di vita.

Anche i nostri camerieri e cuochi scioperarono, era nell’ordine delle cose. Anni dopo appresi da mia madre che proprio quel giorno in cui mio fratello era arrivato a casa, lei aveva dovuto concludere anticipatamente il ricovero in clinica per aiutare mio padre a condurre il ristorante rimasto privo di personale. Erano proteste legittime – che sfociarono nello statuto dei lavoratori del 1971 – ma mia madre, tre giorni dopo il settimo parto della sua vita, dovette tornare a lavorare.

Tutta questa fatica venne compensata da una gioia incontenibile che trasudava da ogni poro della pelle dei miei genitori. Papà, nel contemplare i pochi riccioli scuri che adornavano quella bella testolina, riteneva di avere la prova inconfutabile di come Massimiliano fosse la sua fotocopia. Insomma, era arrivato mio fratello, quello bello.

Con il passare dei mesi questa faccenda del fratello bello cominciò a rendermi a dir poco inquieto. Nella mia mente si affacciava un sentimento fino ad allora sconosciuto: la gelosia. Che fosse di bell’aspetto era oggettivamente vero ma avevo l’impressione che per lui ci fossero continui favoritismi e preferenze.

Volendo esagerare un po’, la magnitudo della tragedia venne raggiunta il Natale successivo alla sua nascita, quando nella rappresentazione del presepe vivente organizzata in Città Alta mio fratello venne scelto per interpretare Gesù bambino. Anch’io ebbi un ruolo fondamentale nello show: il pastorello.

Roso dall’invidia e indossato un fetido mantello – recuperato in chissà quale scantinato umido e maleodorante – mi venne consegnato un bastone ricurvo con cui avrei dovuto chiamare a raccolta le mie pecore immaginarie. Che smacco.

Come se non bastasse, Massimiliano cresceva palesando al mondo il suo animo gentile e, forse per lo stretto legame con San Francesco, anche il suo amore, ricambiato, per gli animali.

In famiglia, tutti noi sapevamo dell’innata propensione all’ultimo di papà. Non inteso come persona ai margini della società – e anche su questo avrei molto da narrare – ma inerente all’ultimo in ordine cronologico. L’ultimo ritrovato della tecnica, l’ultimo modello della Fiat, l’ultima novità in cucina. Vien da sé, l’ultimo figlio.

Certo, anche io sono stato l’ultimo figlio, ma solo per tre anni. Prima di Massimiliano, infatti, nacque Mauro, il fratello di mezzo, e non ebbi il tempo sufficiente per godere di quel privilegio. Per consolarmi, papà mi investì di un titolo ufficiale: “il più grande dei piccoli”. Ed era effettivamente così perché, di noi sette, ci sono quelli nati negli anni Cinquanta e quelli negli anni Sessanta, di cui io ero il più vecchio.

Nel frattempo, Massimiliano per semplicità diventò Massimo e cominciò a giocare a pallone. Era dotato pure in quello, davvero un ottimo difensore.

Sempre più bravo e sempre più bello, mio padre se lo mangiava con gli occhi. Ora posso dirlo, non è stato facile vivere e crescere a fianco di un fratello fornito di tutti questi talenti.

Inaspettatamente venne in mio soccorso Massimo Troisi – ancora Massimo, una persecuzione. Andai al cinema con gli amici a vedere “Ricomincio da tre”. Feci un sobbalzo sulla poltrona quando il protagonista, nello scegliere il nome del figlio, si rifiuta categoricamente di chiamarlo Massimiliano.

“Massimiliano viene scostumato. È proprio il nome che è scostumato. Per esempio, stu guaglione sta vicino a mamma e si muove per andare da qualche parte. La mamma prima che lo chiama “Mas-si-mi-lia-no!”, ‘o guaglione chissà dove sta, chissà cosa sta facendo. Non ubbidisce, perché è troppo lungo!”

Non potei trattenermi dallo sghignazzare compiaciuto. Certo, in un’altra scena del film, Troisi si trova a tu per tu con un ragazzo che è un eufemismo definire nevrotico e frustrato, il quale gli confessa: “ho i complessi nella testa”. La risposta di Troisi è fulminante “tu in testa tieni un’orchestra intera”. Ma qual è il nome di questo personaggio sfigatissimo? Robertino! Eh, no. Proprio come mi chiamava mio padre quando era in vena di scherzare.

Alla fine, però, ci ho fatto il callo. Anche perché è una gioia avere così tanti fratelli e sorelle. Siamo cresciuti e ci vogliamo bene. Comunque, quel riconoscimento ufficiale mi è rimasto e, quando necessario, lo faccio valere. Sono o non sono “il più grande dei piccoli”? Pure di mio fratello, quello bello.