• Nato in Città Alta

Io sono Diego

Lo so, tutti mi chiamano Roberto, ma io sono Diego.

Per ogni genitore, la scelta del nome – che sia il primo figlio o il quinto, come nel mio caso – rappresenta un momento molto delicato. Una decisione difficile che spesso evolve in trattative laboriose ed estenuanti. Neanche fossimo a Yalta…

Fedele a un’usanza molto diffusa al Sud e comune anche qui, nelle lande orobiche, papà acconsentì al desiderio di mia mamma di chiamarmi Diego, come suo padre.

Papà era nato proprio sulla punta dello stivale. Era innamorato della sua terra d’origine ma, per molti aspetti, si sentiva un uomo del Nord, moderno ed emancipato. Tra i nuovi nati ormai era frequente imbattersi in nomi come Marco o Luca, Stefano o Maurizio, e lui voleva adeguarsi al nuovo che avanza. In Città Alta era difficile trovare un Salvatore o un Carmelo, ancor meno una Maria Concetta. Diego ancora ancora, però…

Così venne il 3 maggio 1965 in cui, alle 6 del mattino, mi presentai al mondo e papà rispettò la parola data. Fino a un certo punto, però. Scrisse Diego sul registro dell’anagrafe e, all’insaputa di mia mamma, fece aggiungere un secondo nome: Roberto.

La motivazione, assai solida dal suo punto di vista, era che tra i molti fratelli, cugini e nipoti, di mia madre vi erano già quattro Diego e ciò avrebbe generato una gran confusione durante i ritrovi familiari.

Mia mamma mi raccontò la sua sorpresa nel momento in cui le infermiere le misero in braccio il sottoscritto dicendole: “Ecco qui il suo Diego Roberto!”. Come già era accaduto in altre occasioni, papà aveva agito d’impulso e, quando succedeva, nulla e nessuno poteva fermarlo.

Ora bisognava dirlo a mio nonno, un uomo dolce e di poche parole, al quale i miei genitori avevano promesso che mi sarei chiamato Diego, privo di secondi nomi a offuscarne il prestigio. Se ne fece presto una ragione e si mise d’accordo con papà: lui mi avrebbe chiamato Diego e mio padre Roberto.

Sin da piccolo, quindi, per me era difficile capire quale fosse il mio vero nome, persino in casa. A scuola, poi, peggio ancora. Sul registro di classe ero Diego, ma tutti mi conoscevano come Robi. Ogni mattina, al momento dell’appello, la maestra ripeteva ad alta voce “Amaddeo Diego” e io avevo bisogno di qualche secondo per ricordarmi di chiamarmi così.

Sono davvero infinite le volte in cui mi è toccato spiegare che, sì, mi chiamavo Diego ma in realtà il mio nome era Roberto. Tranne quando si giocava a pallone. Lì aveva i suoi vantaggi.

I compagni di squadra mi gridavano: “Passami la palla Diego!”, e il più delle volte facevo finta di non capire, avendo così una magnifica scusa per non passarla mai. La cosa funzionava anche al contrario: “Crossa Robi!”, ma io mi chiamo Diego.

Crescendo mi sono ritrovato più di una volta a vivere momenti perfettamente adeguati ai canoni della commedia all’italiana. Come quando mi presentai all’aeroporto di Brindisi per riportare a casa mio figlio, all’epoca un bambino di sei anni, affidato a mia sorella per una breve vacanza.

Un solerte poliziotto di stanza all’imbarco esaminò con cura la mia carta d’identità confrontandola ripetutamente con il documento di viaggio. Bene, in una c’era scritto Diego, nell’altro Roberto. Mi fissò in silenzio per qualche secondo, che a me sembrarono un’eternità, concludendo: “Ma lei chi è? Diego o Roberto?”.

Incrociando lo sguardo preoccupato di mio figlio al di là del vetro, con una punta di imbarazzo cercai di giustificarmi portando a esempio Marco Pannella, Giacinto all’anagrafe ma Marco per il mondo intero. Lo feci in modo maldestro, evidentemente, visto che il poliziotto mi condusse nel suo ufficio per approfondire la faccenda e verificare la mia vera identità.

Tutto fu risolto nel giro di mezz’ora ma in quel breve lasso di tempo maledissi il giorno in cui a mio padre venne in mente di appiopparmi un secondo nome. Addirittura, nel momento di dire sì al mio matrimonio, quando il prete pronunciò il nome Diego ebbi un attimo di esitazione e guardai alle mie spalle per capire se il prete stesse parlando proprio con me.

Anche la raccolta delle firme per la lista elettorale all’interno della quale mi ero candidato divenne motivo di lacrime e risate. Sulla lista per le elezioni comunali del 2014 scrissero Roberto Amaddeo. Fu inenarrabile il caos che si generò quando il certificatore si accorse che il nome autenticato non corrispondeva a quello sulla carta d’identità.

Burlandosi di me, un compagno di lista mi disse: “Mi sa che nemmeno tu sai come ti chiami”. Gli risposi a tono: “Mi chiamo Diego, ma non dirlo troppo in giro”.

A questo punto, però, diciamo le cose come stanno: Mimmo non si chiamava Mimmo, perché all’anagrafe era Demetrio. Quindi, se tanto mi dà tanto, papà non ha fatto altro che rispettare una consolidata tradizione familiare.