• Nato in Città Alta

Hanno ucciso John Lennon

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A casa mia, non c’era il tempo di fare colazione seduti a tavola, magari commentando le prime notizie del giorno ascoltate alla radio. Noi sette figli ci svegliavamo presto per andare a scuola – chi alle medie, chi al liceo, chi a seguire le lezioni all’università – mangiando per strada una fetta del pane di papà gocciolante olio calabrese, piccante e saporito.

Il 9 dicembre 1980 non avevo ancora il mio amato Ciao bianco fiammante per scendere in Città Bassa, così presi al solito la funicolare da Piazza Mercato delle Scarpe. Come da prassi, l’ultima corsa possibile per non arrivare in ritardo a scuola, il liceo Lussana.

Faceva freddo quel martedì di fine autunno, con un cielo di Lombardia “che è così bello quando è bello” – come lo descrisse il Manzoni in tempi in cui lo smog non aveva ancora assediato il Resegone – ma non potevo immaginare il gelo che avrei trovato, da lì a poco, al mio ingresso in classe.

Che tirasse un vento da sciabolata artica o si presentasse inaspettato il favonio, appena giunto in aula, ad accogliermi c’era sempre il Mauri. Amico e compagno di banco che, ogni mattina alle ore otto, mi sbeffeggiava con la solita battuta su Città Alta, paesello triste e sperduto sui monti ben lontano dalla civiltà.

Stavolta no. Lo trovai in piedi, affranto, accanto alla lavagna. I suoi occhi trattenevano a stento le lacrime. Con un filo di voce mi disse “Hai sentito?”. “No, cosa?” gli risposi lanciando la cartella sul banco con la mia consueta noncuranza. “Hanno ucciso John Lennon, gli hanno sparato”.

Il Mauri se la cavava piuttosto bene con la chitarra e amava i Beatles alla follia. Conosceva a memoria ogni loro canzone e proprio non gli era andato giù il disfacimento di quella band capace di mutare il corso della storia della musica. Un evento infausto e doloroso causato, a suo dire, da John Lennon per amore di Yoko Ono. O, meglio, da un sortilegio diabolico operato della maliarda nipponica per impadronirsi dell’anima di John.

Lui preferiva il sognante e melodico McCartney al più estroso e imprevedibile Lennon, ma quella mattina il Mauri era inconsolabile. E ora stavamo male in due, perché anch’io adoravo John Lennon e i quattro di Liverpool.

Ci guardavamo negli occhi, convinti che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Perché John Winston Lennon non era solo una delle stelle più fulgide del firmamento musicale, era un’icona del suo tempo, un uomo la cui opinione era ascoltata da milioni di persone. Un vero influencer, altro che quelli di oggi.

La notizia del suo omicidio attraversò il pianeta come un’immane scarica elettrica, generando ovunque smarrimento e commozione. Fu un momento di turbamento collettivo senza precedenti.

Il primo annuncio, in America, fu dato la sera stessa, l’8 dicembre, durante la telecronaca del “Monday Night Baseball”. Anche in Italia la notizia giunse in un attimo, a una velocità tale da far impallidire quella odierna dei social media.

John Lennon fu assassinato a New York davanti al Dakota Building, un eccentrico palazzo di fine Ottocento che si affaccia altero su Central Park. Viveva lì con la moglie e il figlio Sean, a cui, quella sera, aveva appena dato il bacio della buona notte.

Poche settimane prima era uscito “Double Fantasy”, un disco testimone della sua profonda evoluzione come uomo, padre e marito. Di certo non il vertice assoluto della sua arte, ma conteneva più di una bella canzone. Tra queste, un brano dedicato a Sean in cui appare un verso che si rivelerà profetico: “Life is what happens to you while you’re busy making other plans”. La vita è ciò che ti accade mentre tu stai facendo altri piani.

Quel giorno, la mattina dell’8 dicembre, John e Yoko avevano posato per Annie Leibovitz, fotografa di rara sensibilità nel ritrarre l’essere umano, specie nella sua nudità. Un set fotografico in cui venne realizzato uno scatto, divenuto poi celeberrimo, che apparirà poche settimane più tardi sulla copertina di “Rolling Stone”.

John convinse la Leibovitz, inizialmente restia, a fotografarlo con Yoko, la quale però si rifiutò di spogliarsi. Così, grazie a una Polaroid, nacque una delle foto più rappresentative di tutti gli anni Ottanta. John è avvinghiato a Yoko, lei è vestita mentre lui è nudo in posizione fetale.

Un abbraccio tra i due che riverbera anche nel testo di Woman, un’altra canzone contenuta in “Double Fantasy”, in cui John canta “I know you understand, the little child inside the man, please remember, my life is in your hands”. So che tu capisci, il bambino dentro l’uomo, ricorda che la mia vita è nelle tue mani.

Lennon sapeva bene di essere stato un “little child”, la cui adolescenza travagliata, trascorsa con la rigida zia Mimi, aveva contribuito a renderlo l’uomo che era diventato. Quella zia che lo aveva rimproverato più di una volta: “The guitar’s all very well, John, but you’ll never make a living out of it”. La chitarra va bene, John, ma non ti darà certo da vivere. Tempo dopo, ormai ricco e famoso, John fece incidere questa frase su una targa d’argento facendola recapitare all’irreprensibile Mimi.

Nell’impetuoso fluire degli anni Settanta, così dirompenti e rivoluzionari, Lennon si era progressivamente trasformato da musicista a uomo messaggio. “Give peace a chance” cantava. Voleva diffondere il suo credo pacifista e lo faceva utilizzando il suo corpo e le sue parole. Ormai non si trattava più di musica e testi, ma di arte concettuale.

Quella malaugurata sera, fredda come può esserlo solo a New York nel mese di dicembre, il venticinquenne Mark David Chapman decise di fare il suo ingresso trionfale nella storia, in maniera tanto funesta quanto vile. Avrebbe ucciso John Lennon con cinque colpi di pistola alla schiena.

Uno squilibrato, un cristiano fanatico con un padre violento e anaffettivo. Chapman si identificava nell’inquieto e psicologicamente fragile protagonista de “Il giovane Holden”, il romanzo di Salinger. Era stato anche un fervente ammiratore dei Beatles, attratto in particolar modo dalla figura carismatica di John Lennon. Nella sua fissazione, aveva sposato una donna americana di origine giapponese, proprio come il suo idolo. Ma ora le cose erano cambiate, a cominciare da quella dichiarazione in cui John affermava: “Oggi i Beatles sono più popolari di Gesù”.

In “Imagine” John cantava: “Nothing to kill or die for and no religion too”. Immagina che non esista nulla per cui uccidere o morire, e nemmeno la religione. Questo era davvero troppo, Lennon andava punito e Chapman si sentì investito di quel compito. Così, dopo essersi fatto autografare l’album “Double Fantasy” da John, lo attese tutto il giorno con l’intenzione di ucciderlo. E così fece. Dopo aver sparato l’ultimo colpo, in attesa della polizia, Chapman si mise a sedere sul marciapiede riprendendo la lettura de “Il Giovane Holden”.

Per tutti noi, ragazzi incoscienti e sognatori, che fantasticavamo su ogni ragazza come fosse quella di “Girl” e immaginavamo di perderci in “Strawberry fields forever”, fu un dolore immenso. Un’ingiustizia difficile da accettare.

Da lì a pochi anni, il Mauri fondò una band chiamata Abbey Road. Vestiti e pettinati come i Fab Four dei primi tempi, sembravano proprio loro, ma tutto era cambiato. Anche in questo John Lennon era stato premonitore quando, rispondendo all’ennesimo giornalista che gli chiedeva lumi sul perché si fossero sciolti i Beatles, aveva risposto con schiettezza: “Perché io sono cambiato e se tu non sei cambiato mi spiace per te”.

A volte mi chiedo se “Imagine” – il più grande dono musicale di Lennon al mondo, come scrisse “Rolling Stone” – avrebbe avuto la stessa popolarità senza la sua morte. Mi rispondo da solo: credo di sì, perché non esiste un’altra preghiera laica, tradotta in musica, altrettanto spontanea e universale.

Ancora oggi, da Liverpool a New York, ogni luogo legato alla vita di John Lennon è meta di pellegrinaggio. Ancora oggi, però, non sappiamo se “Nothing is real” e se “Living is easy with eyes closed”. Non ci rimane che affidarci a quello che sarà. “Let it be”, come direbbe Paul McCartney.