- Due calci al pallone
E per cosa dovrei piangere?
Il rosso e il nero. Non parlo del romanzo di Stendhal che lessi avidamente a vent’anni, parlo del Milan.
Perché il mio cuore è a strisce rossonere, rigorosamente verticali, da quando ero un bambino.
Non vi è un presupposto razionale per cui ti innamori di una squadra di calcio. Forse sei attratto dai colori sociali o affascinato dalle giocate di un campione. L’amore può scaturire da una tradizione di famiglia o, al contrario, proprio per andare contro a quella.
Nel mio caso, papà mi portò al tempio, San Siro, e mi illuminai d’immenso nel vedere Gianni Rivera danzare sulla palla. Il mio destino era segnato: mi invaghii perdutamente di lui e del Milan.
Per Carmelo Bene “il Milan eccede la materia, è celeste”. Un concetto meraviglioso, ma io voglio essere terra terra: la vera ragione per cui sei e resti tifoso della tua squadra è la sofferenza.
La condivisione di una sconfitta, dolorosa o inaspettata, ti lega per sempre a quella maglia. Pensando ai milanisti più giovani, la loro fede è stata temprata allo stadio Atatürk di Istanbul nel maggio del 2005. In vantaggio di tre reti al termine di un primo tempo giocato al limite della perfezione, il Milan si vide scivolare dalle mani la coppa con le grandi orecchie che, senza salutare, salì su un aereo diretto a Liverpool.
Per chi invece ha il viso segnato dalle rughe donate senza parsimonia dal tempo è impossibile dimenticare il 20 maggio del 1973.
È l’ultima giornata di campionato e il Milan guida la classifica con un punto di vantaggio su Juve e Lazio. Il gran giorno sembra arrivato: quello in cui la stella del decimo scudetto verrà cucita sulle maglie rossonere.
Il mercoledì della settimana precedente, a Salonicco, il Milan ha vinto la Coppa delle Coppe contro il Leeds guidato in attacco dallo scozzese Joe Jordan, chiamato lo “squalo” per l’abitudine di togliersi gli incisivi finti prima di scendere in campo. Negli anni Ottanta Jordan vestirà con alterna fortuna la maglia rossonera ma quella sera si impegnò a morte per rendere la vita impossibile ad Anquilletti e i suoi compagni di reparto.
Cavallo pazzo Chiarugi portò in vantaggio il Milan nei primi minuti, poi solo Leeds. Fu grazie agli interventi prodigiosi tra i pali di William Vecchi – da quel giorno l’eroe di Salonicco – che il Milan resistette fino al novantesimo portandosi a casa la Coppa.
Le energie fisiche e mentali della squadra si erano dissolte su quel campo reso pesantissimo dalla pioggia, per questo i dirigenti di via Turati chiesero di posticipare di un giorno l’ultima partita di campionato con il Verona già retrocesso in Serie B. La Federazione rispose di no. Forse perché allora la schedina del totocalcio doveva avere vincitori e vinti già alla domenica sera o forse i motivi erano altri.
Come ogni pomeriggio di primavera baciato dal sole, giocavo a pallone con gli amici alla Fara ed ero appena rientrato Da Mimmo. Grondante sudore e con le scarpe inzaccherate, senza esser visto da mia madre, mi ero seduto a un tavolo con mio nonno e alcuni camerieri. Terminato il turno del pranzo, avevano acceso la radiolina per seguire l’ultima giornata di Serie A.
In quegli anni il calcio era vissuto quasi esclusivamente sui gradoni degli stadi e riuscivi ad avere le prime notizie sull’andamento delle partite solo all’inizio del secondo tempo, quando alla radio cominciava “Tutto il calcio minuto per minuto”.
La voce di Enrico Ameri giunse come una frustata sul viso: “A Verona: Verona 3 Milan 1”. Mi sentii mancare. Com’era possibile?
Il secondo tempo fu un autentico supplizio. Il Milan perse 5 a 3 e la Juve, vittoriosa a Roma grazie a un gol di Cuccureddu a tre minuti dalla fine, fece suo il campionato.
“Ecco i miei cadaveri”. Con queste parole l’allenatore del Milan Nereo Rocco, per tutti noi il “Paron”, aprì la conferenza stampa post-partita. Ancora più polemico e tagliente fu Gianni Rivera che, alla Domenica Sportiva, sintetizzò quanto accaduto: “Diciamo che la palla è rotonda ma rotola sempre dalla stessa parte”.
Per vedere quella stella cucita sulle maglie del Diavolo avrei dovuto aspettare ancora un po’. Così presi il mio fedele Super Santos e andai sul retro del ristorante, fermandomi davanti alla saracinesca del garage. Iniziai a calciare ritmicamente il pallone, mentre le lacrime scendevano in silenzio rigandomi il volto stravolto dai singhiozzi.
Non so quanto durò quel momento, ricordo solo che a certo punto arrivò mio padre. Cercando di consolarmi, abbozzando un fragile sorriso mi disse: “dai, non si può piangere per una partita di calcio!”. Io lo guardai dritto negli occhi e gli risposi: “E per cosa dovrei piangere?”.
Ogni volta che ripenso a quel giorno infausto, mi sembra di sentire la voce struggente di Enzo Jannacci cantare “Vincenzina e la fabbrica”: “Zero a zero anche ieri ‘sto Milan qui, ‘sto Rivera che ormai non mi segna più”.
Ora sono in paziente e imperturbabile attesa della seconda stella e non mi dispero più se perde il Milan, ma se il mio cuore sarà per sempre a tinte rossonere lo devo al pianto inconsolabile di quel bambino con la fronte appoggiata alla serranda e la faccia ancora sporca di terra.