• Le storie di Mimmo

Un albero chiamato Lina

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Che fossero ciliegie tardive di Vignola o fragoline di bosco raccolte la mattina stessa, di frutta mia mamma ne mangiava gran poca. 

Non le piaceva. Tutto quanto di dolce si potesse cogliere da un albero o da un rovo, addentrandosi in campi o cespugli, non faceva parte delle sue abitudini alimentari. 

La sua vita era fatta di molto lavoro e poche pause. Mangiava spesso in piedi, con una sola mano perché l’altra era impegnata a soffriggere, scolare, grattugiare. Si faceva bastare un pezzo di formaggio, un tocco di pane o un assaggio di parmigiana di melanzane, solo per accertare la perfetta riuscita del piatto da servire in sala. Tutto ciò non contribuiva di certo a farle apprezzare la polpa morbida e profumata di una pesca tabacchiera o la freschezza di una fetta di anguria a Ferragosto.

Mia mamma, soprattutto, detestava gli agrumi. Ogni volta che per un motivo o per l’altro le toccava assaggiarne uno, sul suo viso si disegnava una smorfia stretta parente del dolore. 

Mio padre, al contrario, adorava la frutta ed era un vero maestro nello sbucciarla. Con il solo ausilio di coltello e forchetta, in un attimo denudava una pera o un kiwi, per non dire uno spinoso e infido fico d’India. Da ragazzo, quando lavorava come apprendista, aveva imparato a trattare e a rispettare il cibo. Come lo si pulisce, lo si trasforma e lo si mette in tavola. 

Brava, da un lenzuolo hai fatto un tovagliolo!

 Per invogliare mia madre a cibarsi anche di frutta, con tutti i benefici che ne conseguono, mio padre si offriva di sbucciargliela, con celerità e precisione chirurgica. La rare volte in cui le parti si invertivano, e mia madre gli pelava una mela erano lamentele a non finire perché lei, insieme alla buccia, asportava anche parte del frutto. La frase che le ripeteva era sempre la stessa: “Brava, da un lenzuolo hai fatto un tovagliolo!”. 

La passione quasi smodata di papà per la frutta, specie quella colta direttamente dall’albero, aveva radici antiche. Era scaturita da piccolo, quando nelle vaste campagne che circondano Reggio Calabria, con i suoi fratelli più grandi andava a “caccia” di bocconi prelibati, dolci e succosi, offerti dalla generosità della natura. 

Un giorno – era tempo di albicocche e papà avrà avuto poco più di tre anni – accompagnò Antonio, il maggiore dei suoi fratelli, a raccogliere i frutti più maturi. Dopo essersi rimpinzati a dovere, ne ruppero i noccioli per estrarne i semi. 

Non lo poteva sapere. I semi di albicocca contengono una sostanza che durante la digestione viene trasformata nel temibile cianuro.

Questi venivano immersi in bocce di vetro colme d’acqua per farli addolcire. Mentre Antonio trafficava con noccioli e semi, mio padre iniziò a mangiarne uno dopo l’altro. Erano buoni, un po’ strani a dir la verità, dolci e amari nello stesso tempo, ma ne ingollò fin troppi, tanto da rimanere intossicato e perdere i sensi.

Non poteva sapere che i semi di albicocca, simili a mandorle amare, contengono naturalmente un composto chiamato amigdalina, una sostanza di per sé innocua che durante la digestione si trasforma nel temibile cianuro. Vertigini e un diffuso senso di agitazione, tachicardia, nausea e cefalea, sono i sintoni più comuni dell’avvelenamento da cianuro che, in casi estremi, può essere anche fatale. 

Per fortuna si riprese rapidamente. La fame e la curiosità gli avevano giocato un brutto scherzo, ma forse il suo rispetto per la frutta nacque proprio quel giorno. 

Poco tempo dopo mio padre e mia madre avrebbero frequentato lo stesso asilo e più avanti le stesse scuole, dove a qualcuno, figlio di quei pochi signori dell’epoca, posavano sul tavolo cesti ricolmi di frutta appena raccolta. 

Tutti gli altri dovevano accontentarsi di un solo frutto, il più delle volte solo metà. Ciò valeva anche per mio padre e mia madre che, diventati adulti, mantennero quell’abitudine e continuarono per tutta la vita a dividere ogni frutto in due. Per loro, fare a metà di una pesca era un gesto d’amore, semplice e spontaneo. Un appuntamento quotidiano, a pranzo e a cena.

Con gli agrumi, però, la situazione si faceva ardua. Di fronte all’avversione di mia madre per qualunque frutto generato da una pianta appartenente al genere Citrus, non c’era insistenza o lusinga che tenesse.

Un albero mai visto, unico e speciale.

Tuttavia, come accadeva spesso a mio padre, l’intuizione geniale sopraggiunse all’improvviso. Avrebbe chiesto a un suo cugino che viveva nella campagna reggina di “creare” un albero di arance capace di donare frutti dolcissimi. Pensava alla tecnica dell’innesto, così da combinare le proprietà dell’arancia vaniglia – dai frutti biondi, delicati e senza semi – a quelle del mandarino. 

Un progetto a lungo termine, era evidente, ma papà non aveva fretta, la pazienza era connaturata alla sua indole. Ed ecco che, trascorso qualche anno, giunse un “pacco da giù” particolarmente voluminoso, di quelli che immancabilmente arrivavano tra dicembre e gennaio. Conteneva i frutti di quell’albero tanto unico e speciale, a cui fu dato il nome di mia madre: Angelina, anche se per tutti è stata sempre Lina. 

Papà sprizzava gioia da ogni poro, finalmente sua moglie avrebbe inteso tutta la bontà di un agrume dolce, quasi zuccherato, degno dei palati più raffinati. In terra calabra, un albero portava il nome della sua sposa, della madre dei suoi sette figli. Cosa vuoi di più?

L’illusione durò giusto il tempo di un battito di ciglia. O di un primo morso. Anche questo tentativo si rivelò un buco nell’acqua. Niente da fare, a mia madre le arance non piacevano. Nemmeno queste, che più dolci non si può.

Dalla Calabria, un frutto esotico originario del Perù.

Accettare la sconfitta. Certo che no. Accantonato tristemente il meraviglioso mondo degli agrumi, mio padre si ricordò di un frutto esotico, originario dell’Ecuador e del Perù, coltivato da tanto tempo anche in Calabria e in Sicilia: l’annona. Anche se qualcuno si ostina a chiamarlo al maschile, annone. 

Poco più grande di una mela, ha un sapore inconfondibile, tra l’ananas e la banana, con un punto di vaniglia. Ricoperta da piccole squame verde pallido, al suo interno l’annona propone una polpa dolcissima e burrosa, quasi bianca, che viene gustata al naturale, con un cucchiaino, senza aggiungere zucchero, limone o altro. 

Ogni Natale, papà ne faceva arrivare una cassa e per qualche settimana ogni pasto si concludeva con l’annona. Mia mamma mangiava in silenzio la sua metà senza tradire alcuna espressione, che fosse di disgusto o di gradimento. Fingendo indifferenza, mio padre la sbirciava di sottecchi non osando porle la fatidica domanda: “ti piace”? 

Che lei mangiasse quel frutto della loro terra solo per amore e rispetto nei confronti di papà, per tutti noi era un sospetto più che fondato. Quando sul finire dei suoi anni mia madre fu colpita dalla malattia del secolo, quella che ti offusca piano piano la memoria ma allenta anche qualche freno inibitore, mi avventurai timidamente a chiederle se davvero trovasse delizioso quel frutto. “Non mi è mai piaciuto” rispose lapidaria.