- Le storie di Mimmo
Quando la Roncola
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L’estate bergamasca ci omaggia da sempre, e senza parsimonia, di giornate umide e afose, avvicendandole con studiata cattiveria ad altre infuocate e senza vento.
La calura che allieta i mesi di luglio e agosto è la stessa che si accaniva su Città Alta trenta o quarant’anni fa.
Per il nostro ristorante – ben protetto dagli spessi muri della Casazza, il palazzo del Trecento che ci ospita ancora oggi – era comunque una benedizione poter disporre di un ampio giardino. Ma attenzione, bisognava fare i conti con l’oste. Ovvero con il temporale che, manco fosse sul trono alla reggia di Versailles, deteneva il potere assoluto di mandare all’aria o, meglio, all’acqua tutti i piani.
Con la bella stagione, oggi come allora, la gente desidera stare all’aperto. E non si schioda dalla sedia fino a che non arrivano le prime gocce, senza rendersi conto che apparecchiare all’interno o all’esterno, per chi si occupa di allestire la tavola, fa una grande differenza. Figuriamoci, poi, quando l’aria condizionata era considerata una stramberia da americani che forse, un giorno, sarebbe giunta anche dalle nostre parti.
Ricordo l’inquietudine dei miei genitori nel programmare la “mise en place” per la sera, nel momento in cui decidevano di sfidare l’autorità del colonnello Bernacca, il quale, la sera prima alla TV, aveva preannunciato possibili, se non probabili, perturbazioni temporalesche sul Nord Italia. I loro dubbi si gonfiavano minacciosi come le nuvole che temevano di vedere apparire all’orizzonte da un istante all’altro.
Apparecchiare o non apparecchiare i tavoli in giardino? Ora ci basta sbloccare il telefono cellulare e consultare l’app preferita – Windy o Yahoo Meteo – per sapere se, in serata, pioverà o non pioverà in Città Alta o a Buenos Aires. Una volta dovevi attendere l’ora di cena per sintonizzarti su RAI 1 e sentirti dire, il più delle volte, “domani dovrebbe essere bello a meno che poi diventi brutto”. L’alternativa ai “millibar” e alle “isobare” di quelle previsioni del tempo ancora un po’ ruspanti era affidarsi alla saggezza popolare.
Meglio la saggezza popolare della meteorologia.
Ed è esattamente qui che irrompeva sulla scena il nostro alquanto pirotecnico cameriere Eugenio. Non appena sentiva le prime avvisaglie di un venticello proveniente da nord, notando che merli e passerotti abbassavano il loro volo o cercavano riparo tra le chiome degli alberi vicini, il Genio si metteva una mano sulla fronte a mo’ di visiera e scrutava concentrato l’orizzonte in direzione della Roncola.
Per creare la giusta tensione emotiva nel suo affezionato pubblico non pagante, il verdetto del nostro cameriere esperto in meteorologia si faceva attendere più del dovuto. E ogni volta, spazientito, mio padre esortava il Genio ad esprimere la sua incontrovertibile sentenza: “Allora, Genio, piove o no?”. Dall’alto della sua scienza, il nostro uomo in giacca bianca proferiva il fatidico: “Quando la Roncola la gà ol capèl, o l’fa bröt o l’fa bel”.
La scenetta veniva replicata ad ogni addensamento di nubi o sinistro borbottio del cielo, ma la prima volta fu indimenticabile.
Mio padre, che non afferrava al volo il dialetto bergamasco, guardò stupito mia madre che invece aveva capito benissimo e rideva come le capitava di rado. Anche il Genio era divertito ma mio padre, intuita quella presa in giro a cui mia mamma stava offrendo il suo appoggio, li mandò al diavolo entrambi.
Le schermaglie tra papà e il Genio erano quasi quotidiane. Una questione di carattere. Pur dotato di ironia e risposta pronta, papà era molto serio e compreso nel suo ruolo. Ciò mal si accompagnava al fare perennemente scanzonato del nostro più esperto cameriere.
Battibecchi continui e frecciatine, il più delle volte su temi che ai miei occhi parevano marginali. Come il nodo del farfallino, il tono della voce o le comande, che il Genio si ostinava a prendere a memoria. In quei frangenti, mi sembravano Totò e Peppino.
Come Totò e Peppino.
Bisticci davvero buffi, di cui ne ricordo uno in particolare. Il nostro menù, negli anni Settanta, proponeva solamente tre dolci: zuppa inglese, crème caramel e pesche con gli amaretti. Tutti preparati in casa, ovviamente, ma il Genio ne elencava altri, aggiungendo le stringhe di liquerizia, gli “asiabesi” della ciotola nei pressi della cassa, ma anche lo zucchero filato e le gomme americane che teneva in tasca.
Questa sua brillante iniziativa esasperava papà all’inverosimile, eppure non vi era nulla da fare, il Genio perseverava nelle sue spiritosaggini. Un sarcasmo ingenuo e popolare, il suo, amato da molti clienti abituali, specie quelli più anziani, ma poco apprezzato da mio padre.
Lui ambiva ad alzare il livello del suo ristorante. Non puntava alla stella Michelin ma desiderava che, al di là della buona cucina, Da Mimmo venisse riconosciuto per lo stile impeccabile nell’accoglienza. Tutte quelle freddure e battute le trovava fuori posto.
Vi fu anche lo spinoso caso della dentiera. Le cure odontoiatriche erano l’ultima delle preoccupazioni del nostro Genio, che si ritrovò ben presto senza denti o quasi. Decise quindi di togliere i pochi rimasti e di regalarsi una smagliante dentiera.
A quello strumento di tortura, però, non riusciva ad abituarsi. Metteva la dentiera un giorno sì e un giorno no, anche al ristorante. Papà si arrabbiava moltissimo e inseguiva il Genio per tutto il locale, intimandogli di mettersi quella dannata dentiera, minacciandolo di terribili rappresaglie.
Quando la Roncola la gà ol capèl, o l’fa bröt o l’fa bel.
Io e i miei fratelli ci divertivamo moltissimo ad assistere a quei siparietti. Inarrivabile, però, resta proprio la prima volta in cui il Genio proferì quel suo vaticinio: “Quando la Roncola la gà ol capèl, o l’fa bröt o l’fa bel”. In quella stessa circostanza, poi, rivolto a papà, il Genio, aggiunse: “Mimmo, a ‘nga de fa i bambi al tep.”
La mia conoscenza del bergamasco non è sufficientemente approfondita per comprendere il senso di quest’ultima frase. Ho chiesto aiuto a più di un amico ma ho ricevuto interpretazioni differenti, a volte addirittura contrastanti. A questo punto, ho deciso di interpretarla a modo mio. Credo che il Genio intendesse dire: “La felicità è vivere il momento presente, accettando per quello che è. Se poi pioverà o no, non lo decidiamo noi”.
A volte, mi sembra di sentire la sua voce, quella sua marcata cadenza dialettale che ben si accompagnava a quei frizzi e lazzi di un personaggio che non avrebbe sfigurato in un film di Dino Risi o di Monicelli.
Rivedo pure lo sguardo severo di papà mentre considera il Genio con un misto di affetto e irritazione, entrambi mal celati e difficili da reprimere. D’altra parte, tra loro due era sempre così. Ed era bello così.