• Le storie di Mimmo

OPEN AT SEVEN

Tempo di lettura: 5 minuti

Da un po’ di tempo, Bergamo è diventata una meta turistica tra le più amate. Soprattutto dagli stranieri e da chi intende calarsi per un paio di giorni, ma anche qualcuno di più, in un’atmosfera medievale che nel nostro Paese ha pochi eguali.

Il continuo via vai di persone che trascinano trolley e valigie ci appare come la normalità, ma non è stato sempre così. Concentrati com’erano sulle attività industriali, fino agli anni Novanta i bergamaschi erano poco inclini a credere nelle risorse della propria città nel settore del turismo. 

Negli ultimi vent’anni, chi l’avrebbe detto, il popolo orobico ha mostrato un’insospettata vocazione all’ospitalità. 

Questa nuova realtà ha generato cambiamenti profondi. Primo fra tutti, la necessità di conoscere le principali lingue straniere. Quantomeno l’inglese. Se lavori in un negozio, bar o ristorante, devi essere pronto a comunicare con chiunque, anche con chi proviene dal Lesotho o dalle Isole Comore. 

Conoscevamo bene papà, ogni novità lo attirava come una calamita.

All’inizio di questa nuova era, inattesa ed elettrizzante, c’era ancora mio padre. Trascorreva la maggior parte del tempo in poltrona, ben occultato dal ficus benjamin collocato all’ingresso del ristorante, per dedicarsi alle sue adorate parole crociate, ma si sentiva ancora in piena attività ed era sempre pronto a dare una mano. 

Conoscevamo bene papà, ogni novità lo attirava come una calamita. Vuoi che non fosse così anche per l’inglese? Con noi, più di una volta, si era lamentato del fatto che nel pomeriggio, a ristorante chiuso, entrassero continuamente stranieri per chiedere informazioni a cui lui non sapeva rispondere. 

Oltre a ciò, gli aveva sempre dato fastidio non parlare l’inglese o il francese. Lo spagnolo invece era facile, bastava prendere l’italiano e aggiungere una esse alla fine di ogni parola. 

Un bel giorno fummo chiamati a raccolta e, inscalfibile agli sguardi dubbiosi di mia mamma, papà ci annunciò ufficialmente la sua decisione di voler affrontare di petto l’annoso problema: ci chiese in dotazione un tablet per frequentare un corso di inglese on line. 

La soluzione? Un foglio di carta e un pennarello nero.

Come temuto da tutti noi, figli e nipoti, i risultati furono insoddisfacenti. Non ci capiva nulla, e ciò aumentò la sua insofferenza verso la lingua parlata dai fieri discendenti dei Britanni, ora diventata linguaggio universale, con buona pace dell’esperanto. 

Fu allora che intervenne uno dei suoi amati nipoti, il quale, preso un foglio di carta dalla stampante e un pennarello nero a punta larga, ci scrisse: OPEN AT SEVEN. 

Questa era la frase che mio padre avrebbe dovuto pronunciare, o leggere, a chiunque fosse entrato nel ristorante esprimendosi in una lingua differente da quella italiana. Ma si sa, raramente il mondo reale asseconda i nostri propositi, anche i migliori. Allora capitava che qualcuno entrasse Da Mimmo per chiedere come raggiungere San Vigilio o il permesso di andare al bagno. 

La risposta di mio padre era sempre la stessa, perentoria e per tutti: OPEN AT SEVEN. E se questi non capivano al volo, papà si inquietava e mostrava loro il foglio con la frase scritta a caratteri cubitali in elegante stampatello. 

Una gag degna delle migliori esibizioni di Totò e Peppino.

Poi arrivò quell’indimenticabile pomeriggio di fine agosto. Si festeggiava Sant’Alessandro e al ristorante eravamo tutti presenti. Gli Amaddeo al completo, non capitava spesso. Tra una comanda e l’altra, notai lo smarrimento di una famiglia, di certo non europea, alle prese con papà, il quale stava per perdere la pazienza: “Questi non capiscono nulla”. Non mi restava che correre in soccorso, non di papà ma dei poveri turisti. 

Mi avvicinai al capofamiglia, stempiato e sulla cinquantina, per informarmi da dove venissero. “Nous sommes de Tahiti” mi rispose in francese sorridendo. Fu allora che si intromise mio padre: “Haiti?”. “No Haiti, Tahiti” replicò gentilmente quel distinto signore giunto dall’altra parte del mondo.

Tra mio padre e quell’uomo tanto desideroso di interloquire con lui iniziò una gag degna delle migliori esibizioni di Totò e Peppino. Per farsi capire, il signore mimò la danza tradizionale tahitiana. Mio padre, colto da un irrefrenabile entusiasmo, mimò a sua volta una tarantella calabrese. Una danza, una razza, pensai. In fondo, siamo tutti cittadini del mondo.

Terminato quello stravagante scambio culturale dedicato ai balli popolari, l’uomo pensò di indirizzare la conversazione – definiamola così – su Gauguin e i quadri che il grande artista francese dipinse a Tahiti. 

Il tentativo, ahimè, non ebbe risultati apprezzabili. Del resto, non è che tutti i giorni, su “la rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione” trovavi informazioni su Paul Gauguin e i suoi trascorsi polinesiani.

Metti che, prima o poi, qui entra un altro tahitiano

Papà decise allora di cambiare registro, cercando un approccio più concreto. Con il mio aiuto gli chiese come si dicesse buongiorno in tahitiano. “Ia ora na” fu la risposta. Mio padre annuì, ripetendo correttamente quell’espressione dal suono esotico. Non contento, volle sapere come si diceva “arrivederci”. “Nana” rispose il capofamiglia tra le risate sommesse di moglie e figli. “E grazie? Come si dice grazie?” “Māuruuru”. Mio padre si mise a prendere appunti su quel foglio che riportava OPEN AT SEVEN scritto in bello stile da suo nipote. “Metti che, prima o poi, qui entra un altro tahitiano” commentò a bassa voce.

Fu solo l’inizio. In breve tempo, il suo vocabolario si arricchì di nuove parole e frasi in tutte le lingue del mondo. Papà non divenne certo un poliglotta, ma si divertì molto ad apprendere espressioni e modi dire in idiomi di paesi lontani e a lui sconosciuti.

Ora i ristoranti di Città Alta non aprono più alle sette di sera. La maggior parte è pronta ad accoglierti a qualunque ora del giorno e c’è sempre qualcuno che parla inglese, almeno un po’, ed è davvero improbabile che possa ripetersi una scena esilarante come quella a cui ho avuto la fortuna di assistere. Tanto surreale quanto irresistibile.

Nel voluminoso album dei ricordi legati a mio padre, OPEN AT SEVEN resta uno degli episodi più divertenti. Mi viene in mente spesso e, ogni volta, pur con un accenno di malinconia, fatico a trattenere una risata.