• Le storie di Mimmo

Adesso ci sposiamo, poi ci fidanzeremo

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Anche se un po’ affievolito, il sole tornava a splendere sul Belpaese.

La guerra ormai era finita e l’Italia si rimboccava le maniche. Era tutto da ricostruire, e da dove ripartire se non dall’amore?

Nel pieno della sua giovinezza, papà aveva trascorso un po’ di tempo a Milano, proprio durante il conflitto mondiale ma, appena festeggiata la pace, era salito sul primo treno diretto a Sud ed era tornato a Reggio Calabria per riabbracciare i genitori.

In lui vi era il fermo proposito di trovare un buon lavoro proprio lì, dove era nato e cresciuto, ma non ci mise molto a comprendere che ciò non era possibile. Se al Nord l’economia mostrava segnali di ripresa, al Sud, e in particolare in quella città adagiata sulla sponda calabra dello Stretto, papà trovava solo lavori mal pagati, senza ferie e contributi.

Non vi era balsamo capace di alleviare la sofferenza che intrideva il suo cuore addolorato. Disilluso mise in valigia sogni e speranze e ripartì per Milano dove, all’ombra della Madonnina, lo attendeva suo fratello Enzo, partigiano durante la guerra e ora apprezzato elettricista.

Papà non cercava un’occupazione qualsiasi per sbarcare il lunario. In precario equilibrio sulla cassa delle gassose per arrivare ai fornelli, fin da bambino aveva iniziato a trafficare con fuochi e padelle e ora aspirava a un lavoro che riconoscesse la sua abilità di cuoco e pizzaiolo.

A Milano trovò subito da fare in una pizzeria di Via Agnello, a due passi dal Duomo. Dieci ore al giorno ma almeno qui era pagato il giusto. Abitava con Enzo e sua moglie nella zona di Corvetto da dove andava e veniva due volte al dì per raggiungere il centro.

Era felice e soddisfatto. Quando suo fratello, di punto in bianco, decise di emigrare in Belgio per tentare la fortuna come elettricista in una miniera di carbone e papà si ritrovò solo.

All’improvviso, anche se piccola e accogliente, quella casa gli sembrò troppo grande e vuota. Correva l’anno 1951 e papà giunse a una conclusione perentoria: era ora di sposarsi.

Ripensò a quella bella ragazza che viveva nel suo rione. Da bambini avevano frequentato lo stesso asilo ed erano stati battezzati nella stessa chiesa. Così, la prima volta che fece ritorno a Reggio Calabria, andò a trovare un caro amico, guarda caso il cugino di quella ragazza.

Papà era convinto e determinato, tanto che l’amico non ebbe esitazioni nell’accompagnarlo al laboratorio dove lei stava imparando a cucire. Mimmo la guardò tanto, tanto e intensamente – come cantava Julio Iglesias – che Lina alzò gli occhi dalla vecchia Singer come attratta da un’energia irresistibile. E arrossì come un gamberone cotto sulla brace, almeno questa era la versione divertita di mio padre quando voleva sfidare la risaputa riservatezza di mia madre.

L’attese pazientemente all’uscita e le chiese il permesso di poterla accompagnare a casa. Intimidita, lei non proferì verbo, ma ci voleva ben altro per scoraggiare papà il quale, giunti all’uscio della casa di lei, si limitò a emettere poche sillabe ma ben comprensibili: “voglio sposarti”. Smarrita, mamma recuperò un filo di voce per esclamare: “ma se non siamo nemmeno fidanzati”?

Fu allora che mio padre, ispirato da quell’irrefrenabile desiderio d’amore e dal sogno di un domani meraviglioso tutto da costruire, pronunciò la frase perfetta per far breccia nel cuore di mamma: “Va bene, adesso ci sposiamo, poi ci fidanzeremo”.

Sensibile com’era, intuì che quel ragazzo moro dai baffi sottili e ben curati aveva intenzioni serie. Abbassando gli occhi rispose: “Chiedi a mio padre se possiamo vederci”.

Papà non perse tempo e l’indomani si presentò da quello che poi sarebbe diventato mio nonno, un uomo taciturno e dall’animo gentile che ascoltò in silenzio le sue parole e concluse: “Io però non ho dote da darti”. Papà, che ormai sentiva di avere il mondo in mano, replicò sicuro: “La dote ce la faremo!”.

Oggi sorrido nell’immaginare quel tardo pomeriggio di primavera in cui Mimmo e Lina decisero il loro futuro. All’odore della salsedine che impregnava l’aria, a quegli inconsapevoli eroi di una cronaca di tutti i giorni. A quell’amore acerbo che si metteva in gioco senza riserve. A quei promessi sposi e a quel matrimonio “che s’ha da fare”.

Papà ripartì per Milano con il cuore traboccante di gioia. In quell’anno si scrissero molte lettere e si rividero tre volte. Alla quarta si sposarono.

Dopo il ricevimento – che mio padre descrisse ricco e animato mentre per mia madre fu intimo e riservato – i due salirono sul treno diretto a Milano.

Seduti compostamente in carrozza si accorsero di non aver portato con sé la torta nuziale. Non fecero in tempo a dispiacersene che già lo zio Sarino, fratello di mio padre, affiancava il treno in Vespa. Li seguì fino alla Stazione di Villa San Giovanni dove porse loro la torta dal finestrino accompagnandola da uno squillante: “buon viaggio!”. Seguì un attimo di silenzioso imbarazzo, poi tutti e tre scoppiarono in una fragorosa risata. E fu davvero un buon viaggio. Uno splendido viaggio.