- Due calci al pallone
18 gennaio 1977. Tardo pomeriggio.
Non saprei stabilire quanti sono stati i pomeriggi trascorsi a calciare il mio fedele Super Santos contro il muro della terrazza sopra il ristorante.
Il tempo si annullava. La ripetizione di quel gesto aveva un fascino ipnotico e mi teneva compagnia.
Il pavimento lì non era certo immacolato e quella sfera in PVC, rigorosamente arancione con bande nere, si sporcava a ogni rimbalzo facendo sì che sul muro rimanessero i segni delle pallonate. Creai inconsapevolmente un’opera d’arte destinata allo stupore dei posteri se solo avessi avuto velleità da creativo.
Troppo tardi per bissare la merenda ma troppo presto per pensare già alla cena, quello era un pomeriggio come tanti altri vissuto sul mio personale campo da gioco di cui però non posso scordare la data: 18 gennaio 1977.
Con le mani screpolate coperte dai polsini in lana che chiudevano le maniche della giacca vento, cercavo di resistere al freddo tagliente di quell’inverno particolarmente rigido, quando vidi mio padre salire in terrazza. Pensai: “adesso mi becco un bel rimprovero, mi dirà che ha appena fatto ridipingere il muro”.
Invece no, aveva in mano “La Notte”, un quotidiano che uscendo al pomeriggio, per forza di cose in ritardo sulle notizie fresche di giornata, dava ampio spazio ai fatti più scabrosi o di cronaca nera. Il titolo in prima pagina recitava: “Re Cecconi ucciso”.
Lasciai cadere il pallone e, preso il giornale dalle mani di papà, iniziai a leggere avidamente l’articolo. Luciano Re Cecconi, centrocampista della Lazio, era stato ucciso in una gioielleria di Roma dopo aver finto per scherzo una rapina, o almeno così sembrava dalle prime indagini.
Collezionando le figurine Panini conoscevo a memoria tutti i giocatori di Serie A e B. Nome, cognome, volto e squadra di appartenenza. Come era possibile che il gioielliere non avesse riconosciuto il biondissimo giocatore laziale? Ero incredulo per quella morte insensata di un campione che faceva parte del mio immaginario calcistico.
Il suo cognome originario era Cecconi. Il “Re” fu un dono di Vittorio Emanuele II ad alcune famiglie di Nerviano – che molti anni dopo diede i natali a Luciano – per sdebitarsi della buona cucina e dell’accoglienza ricevuta in quel paese sperduto nella campagna milanese.
Per la zazzera quasi platinata e l’autorità con cui si muoveva in mezzo al campo, i tifosi laziali lo paragonavano a Günter Netzer, stella luminosa del Borussia Mönchengladbach che nel 1973 divenne il primo tedesco a vestire la camiseta blanca del Real Madrid. I Commandos, a quell’epoca anche loro in Curva Sud, inneggiavano a Re Cecconi chiamandolo Cecconetzer.
Ero affascinato da quella Lazio. Una squadra speciale guidata da un allenatore speciale – Tommaso Arturo Renzo Maestrelli da Pisa – che in soli due anni passò dall’inferno della Serie B a uno scudetto inatteso vinto nel 1974 e orgogliosamente cucito sulle maglie biancocelesti nel campionato successivo.
Quella squadra era una polveriera. Divisa in clan, fremeva dell’eccessiva vigoria emanata da personalità troppo ingombranti per convivere serenamente. Solo Maestrelli riusciva a tenere tutto in equilibrio. Da una parte c’erano Giorgio Chinaglia e Pino Wilson, autentici capibanda, e dall’altra Luigi Martini, esuberante terzino con brevetto di pilota d’elicottero e Luciano Re Cecconi, suo amico dai tempi del militare, entrambi appassionati di armi e pistole.
E in quegli anni, in Italia, di pistole ne giravano troppe. C’era aria di rivoluzione. Chi tramava per cambiare lo Stato e chi si accontentava di cambiare il calcio. Si affermava sempre di più una visione “arancione” del pallone fondata sul controllo e lo sfruttamento dello spazio, metafora su un prato verde dell’eterna battaglia degli olandesi per strappare la terra al mare.
Pur restando italiana nell’anima, la Lazio di Maestrelli metteva in pratica molti dei precetti di quell’evoluzione.
Gli aquilotti esprimevano un gioco a tratti insolente per come affrontavano sprezzanti ogni avversario. Una squadra che si portava appresso gli aromi del Chivas Regal trangugiato come acqua minerale nei night club romani e l’odore della polvere da sparo delle pistole che Re Cecconi e i suoi sodali non mancavano di avere con sé anche in trasferta.
Nonostante in allenamento si picchiassero con ferocia tra di loro, il “Maestro” forgiò una squadra che vinceva grazie ai gol di Chinaglia e alla solidità di Cecconetzer, ai muscoli ipertrofici di Oddi e Wilson e alle parate di Felice Pulici. Poi c’erano Petrelli e Frustalupi, Garlaschelli e Vincenzino D’Amico, pedine indispensabili per il gioco di quel manipolo di antieroi che si dissolse in un attimo, quando Maestrelli, il loro mentore, morì nel dicembre 1976 e, un mese più tardi, fra tanti dubbi e altrettante lacrime se ne andò anche Luciano Re Cecconi.
Ricordo ancora oggi il momento in cui chiusi stranito il giornale riportandolo a papà. Ripresi in mano istintivamente il pallone ma chi aveva più voglia di giocare?
Oggi quella terrazza non è più il mio campo di calcio privato. Ora ci sono i tavoli del ristorante e d’estate i clienti se ne stanno lì, seduti al fresco. Talvolta però, mentre lavoro, ho l’impressione di rivedere sul muro il disegno creato dalle mie pallonate e la mente ritorna a quel gelido pomeriggio del 18 gennaio 1977, quando ci lasciò per sempre un ragazzo di ventotto anni che nella vita voleva solo giocare a pallone.